Anche Zagrebelsky è contro il suicidio
Non siamo certo dei fan dei sofismi giuridici di cui sono colmi i suoi libri, ma oggi i nemici dei nemici del diritto alla vita sono tutti nostri amici.
Il suicidio non è né un diritto né una libertà dell’individuo: «Parliamo di diritti o libertà come espansione delle possibilità. Si può parlare di diritto al nulla, o di libertà di nulla? A me pare una mostruosità». Per questo il suicidio è «la tragedia più grande».
Chi lo dice è il noto giurista Gustavo Zagrebelsky in una intervista rilasciata a Silvia Truzzi e pubblicata sul il Fatto Quotidiano del 14 dicembre. Diciamocelo chiaro. Non siamo degli assidui lettori del "Fatto" né degli acribici cultori della sofistica del diritto di cui sono cosparsi i libri di Zagebelsky. Meniamo però vanto di farci ammaestrare, oltre che sorprendere, dalla realtà, e così, di fronte a una verità oggettiva, ci preoccupiamo più di essa che della bocca che l’ha proferita.
Molto c’inquieta Zagrebelsky secondo cui del suicidio «è difficile trattarne in generale, tanto più volendo stabilire una norma che valga sempre e per tutti»; non meno ci disturba il suo stemperare «la tragedia più grande» in una certa sociologia di bassa lega alternata alla confessione di un presunto debolismo strutturale della ragione umana. Epperò assolutamente cogente è la sua riposta al pungolo postogli da I Demoni di Fëdor Dostoesvkij dove il personaggio di Kirillov si uccide per dimostrare al mondo che Dio non esiste: «Chi è Dio?», si chiede Zagrebelski per poi così rispondersi: «Colui che dà e toglie la vita. Kirillov dice: mi tolgo la vita e prendo il posto di Dio». Quindi, prosegue il giurista, «se la gran parte dei casi di suicidio deriva da ingiustizie, depressione o solitudine il suicidio come fatto sociale ci pone una domanda. Può la società dire: va bene, togliti di mezzo, e io pure ti aiuto a farlo? Non è troppo facile? Il suo dovere non è il contrario: dare speranza a tutti? Il primo diritto di ogni persona è di poter vivere una vita sensata, e a ciò corrisponde il dovere della società di crearne le condizioni».
E chi sceglie di uccidersi per sfuggire alla sofferenza? «Una cosa», risponde Zagrebelsky, «è il suicidio come fatto individuale; un’altra, il suicidio socialmente organizzato. La società, con le sue strutture, ha il dovere di curare, se è possibile; di alleviare almeno, se non è possibile. In ogni caso, non confondiamo il nostro tema con quello del rifiuto di trattamenti medicali, anche se ciò può portare alla morte. Posso voler non essere curato, o curato in un certo modo, anche se ciò comporta la morte: ma questo non è voler morire. Il rifiuto delle cure è un diritto e, come tale, deve essere rispettato. Ma ripeto, è un problema diverso». Con questa distinzione non siamo affatto d’accordo, del diritto al "rifiuto delle cure" non vediamo la realtà, ma i motivi che ci sostengono nel batterci contro l’illusione di potersi sostituire a Dio dandosi la morte da sé sono esattamente quelli che sul "Fatto" spingono Zagrebelsky a negare l’esistenza della "libertà di suicidarsi".