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GIUSTIZIA AMBIENTALE

Anche l'Africa rovina l'ambiente, distruggendo le foreste

Il dibattito internazionale sul clima e l'ambiente si svolge soprattutto nei termini della "giustizia climatica". Quindi si chiede ai Paesi ricchi di risarcire quelli poveri. Ma se il principio dovesse essere applicato equamente a tutti, anche l'Africa sarebbe sul banco degli imputati. Dopo la fine del colonialismo ha distrutto le sue foreste. 

Creato 30_11_2022
Antony Blinken in visita in Kenya

“Loss and damage”, perdite e danni. Giustizia climatica vuole che i paesi responsabili del riscaldamento globale, perché da decenni le loro economie avanzate producono la maggior parte dei gas serra, risarciscano il resto del mondo, in particolare i paesi che subiscono i danni maggiori anche se producono quantità minime di CO2. La priorità va al continente africano, il più “innocente”, con solo il 3% delle emissioni, eppure il più danneggiato, con perdite annuali pari al 15% del Pil. Lo ha riaffermato la Cop27, la conferenza sul clima conclusasi il 19 novembre scorso a Sharm el Sheikh, portando da 100 a 340 miliardi il fondo annuale necessario.

Ma se si accetta l’argomento della “giustizia climatica” in base al principio “chi rompe paga”, allora però si deve applicare a tutto e a tutti. Deve valere anche ad esempio per l’Africa stessa che, se è innocente e va risarcita per gli effetti umani negativi sul clima dal momento che produce molto meno CO2 di altri continenti, posto che abbia ragione chi sostiene la causa antropica del riscaldamento globale, invece non lo è affatto quando si considera l’impatto umano devastante sull’ambiente naturale: impatto che, a differenza del global warming antropico, non è una congettura, ma un insieme di fatti tangibili, documentati e misurabili. Da decenni gli africani fanno scempio di fauna e flora selvatiche, patrimonio dell’umanità, incuranti di portare a rischio di estinzione un numero crescente di specie, e inquinano e devastano gli habitat naturali producendo danni sempre più spesso irreparabili alla biodiversità. Nei primi 30 anni successivi alla fine della colonizzazione europea l’Africa ha abbattuto il 55% delle sue foreste e ancora la distruzione continua, in alcuni paesi a ritmo accelerato. La Costa d’Avorio negli ultimi 50 anni ha perso quasi tutte le sue foreste. In Etiopia 60 anni fa il 30% del territorio nazionale era costituito da foreste e adesso la superficie boschiva è ridotta all’1%. La Repubblica democratica del Congo negli ultimi cinque anni ha eliminato in media un milione di ettari di foresta all’anno. Il Rwanda solo dal 2001 a oggi ha distrutto l’8,2% della sua superficie arborea. La Nigeria ha già più che dimezzato le sue aree boschive. L’elenco potrebbe continuare.

Mancanza di controlli e corruzione sono i principali motivi per cui il patrimonio forestale di cui i popoli africani dovrebbero prendersi cura viene irresponsabilmente sprecato: per far posto all’agricoltura, anche se i terreni deforestati sono inadatti alla coltivazione, in pochi anni molti inaridiscono e non si rigenerano, per ricavare legna da ardere, perché decine di milioni di famiglie persino nei paesi produttori di petrolio come la Nigeria non si possono permettere altre fonti energetiche e non hanno alternativa se voglio nutrirsi e scaldarsi, e per profitto, per ricavare legname da vendere, soprattutto sul mercato internazionale. Le leggi che limitano l'abbattimento, quando esistono, sono ignorate dai cittadini e dai funzionari stessi che do­vrebbero farle rispettare. È fiorente ovunque un lucroso mercato nero di legname da costruzione e pregiato. È notizia recente che negli ultimi mesi in Kenya, prima che il governo intervenisse a fermare il traffico, sono stati addirittura venduti, ciascuno per poche centinaia di dollari e su licenza governativa, centinaia di baobab anche millenari, acquistati da un miliardario dell’est europeo che li ha sradicati e portati in Georgia. Ha suscitato scalpore, sempre in Kenya nei giorni scorsi, la notizia che il governatore della capitale Nairobi, per farla diventare di nuovo una “città verde” dopo decenni di sconsiderato abbattimento di alberi, ha deciso di importare delle palme dalla Malesia. Lo scandalo è che in Kenya crescono diverse varietà di palme.

Gli alberi si tagliano in tutto il mondo, ma si possono ripiantare. Tardivamente si è deciso di farlo anche in Africa. L’Etiopia, ad esempio, nel 2019 ha lanciato una campagna per piantare 20 miliardi di alberi entro la fine del 2022 e il 19 novembre scorso ha annunciato di aver raggiunto e superato l’obiettivo. Il progetto era iniziato nel 2019 con la messa a dimora di oltre 350 milioni di alberi in un sol giorno, a detta del governo. Ma un conto è piantare, un conto è far crescere. Dopo un anno già oltre il 20% degli alberi erano morti, principalmente per incuria e per essere stati piantati in terreni inadatti. Più realisticamente, il vicino Kenya vanta di averne piantati 51 milioni, su iniziativa del premio Nobel per la pace 2004 Wangari Maathai. 

Il progetto più ambizioso è la Grande muraglia verde, lanciato dall’Unione Africana nel 2007 per creare una fascia verde lunga 7.800 chilometri e larga 15 per un totale di 100 milioni di ettari che dovrebbe attraversare tutto il continente dal Senegal a Gibuti. Ma, mentre per i cambiamenti climatici si chiede di rimediare ai paesi ritenuti responsabili, nel caso dei danni ambientali di portata planetaria provocati dalla deforestazione di cui sono responsabili i paesi africani l’onere ricade quasi del tutto su stati e popolazioni che non ne hanno colpa. A finanziare la Grande muraglia verde, così come altre iniziative “green” in Africa, sono infatti in gran parte dei donatori internazionali tra cui figurano la Banca Mondiale, la Banca europea di investimenti, la Commissione Europea.

Finora è stato realizzato solo il 4% della Grande muraglia verde, al costo di decine di miliardi di dollari. Per accelerare i tempi, vista la lentezza con cui procede la sua realizzazione, il quarto One Planet Summit, un vertice internazionale per fare il punto sullo stato dei lavori, svoltosi a Parigi nel 2021, ha deciso un nuovo finanziamento: il Great Green Wall Accelerator, dell’importo iniziale di 14 miliardi di dollari, portati poi a 19. Ma per terminare il progetto, entro la data fissata del 2030, serviranno ancora almeno 33 miliardi.