Amici miei, una trilogia che ha per tema la morte
Nata da un’idea di Pietro Germi, poi sviluppata da Mario Monicelli (per i primi due film) e Nanni Loy (il terzo), la trilogia Amici miei è un classico della commedia all'italiana. Tanti scherzi e risate, ma c’è un fondo di malinconia. Perché il filo conduttore dei tre film non è l’amicizia né la leggerezza, bensì la morte.
«Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione». È una citazione da uno dei più noti film della commedia all’italiana: Amici miei (1975). Con Amici miei - Atto II (1982) e Amici miei - Atto III (1985) costituisce una celebre trilogia. La serie, a quanto pare tratta da episodi reali, nasce da un’idea di Pietro Germi, poi sviluppata da Mario Monicelli (i primi due) e da Nanni Loy (il terzo, deludente). Racconta le vicende di un gruppo di amici di mezz’età e di buona cultura: il conte Mascetti (Ugo Tognazzi), nobile decaduto che vive con la famiglia in povertà, in uno scantinato; il Melandri (Gastone Moschin), architetto celibe ma sempre incline all’innamoramento; il Perozzi (Philippe Noiret), giornalista caporedattore di cronaca perennemente in fuga dal figlio; il Necchi (Duilio Del Prete nel primo film, poi sostituito da Renzo Montagnani nel secondo e nel terzo), gestore del bar dove si ritrovano gli amici; il Sassaroli (Adolfo Celi), primario ospedaliero che si unisce al gruppo.
La qualità è alta; ridere, si ride (almeno nel primo). Ma con un fondo di malinconia. E qual è il tema della trilogia? L’amicizia? Il prendere la vita con leggerezza? A mio modesto parere, il tema di questi film è un altro: la morte. In fondo uomini avviati verso la fine di una vita senza senso, tra miserie e fallimenti, malattia e vecchiaia; ma colti e intelligenti. Sanno benissimo che il tempo si è fatto breve, che il giudizio si avvicina; e ne sono evidentemente angosciati. La «constatazione del nostro niente».
Ricordiamoci che il primo film fu concepito e scritto da Germi, il quale teneva particolarmente a questo progetto al quale fu costretto a rinunciare per l’aggravarsi della malattia che lo condusse alla tomba. La morte fa capolino, qua e là, come uno spiffero gelido: nel primo film muore il Perozzi e si scopre che al Necchi è morto un figlio; il Mascetti diventa invalido a causa di una trombosi alla fine del secondo. L’intero film, in effetti, sembra una ridanciana danza macabra verso la morte, la decomposizione, la rovina.
Ecco il motivo delle «zingarate», degli scherzi, delle risate forzate: «Che sia per questo, per non sentire il peso di tutto questo che continuo a non prendere nulla sul serio», dice il Perozzi in un monologo prima di morire. «La morte è insopportabile per chi non riesce a vivere», recita un verso dei CCCP; e via con la supercazzola, per sfuggire, almeno per un po’, all’angoscia. Allargando il discorso, questo è il motivo per cui gli uomini giocano e scherzano per tutta la vita, scandalizzando le donne. Mentre le donne viaggiano in compagnia della vita (i figli, le relazioni…), gli uomini percorrono l’esistenza accompagnati dalla morte.
C’è una splendida incisione di Dürer intitolata Il cavaliere, la morte e il diavolo. Alcuni hanno dato la seguente interpretazione: il cavaliere procede, imperturbabile e deciso, verso la sua meta e non si lascia distrarre né dalla morte né dal diavolo che l’accompagnano. A me sembra che l’incisione esprima qualcosa di leggermente diverso: il cavaliere procede verso la sua meta accompagnato dalla morte e dal diavolo. La morte e il male sono i compagni della vita dell’uomo, sono sempre con lui. L’unico sollievo è, come dicevamo, il gioco, lo scherzo, la risata. Questi atteggiamenti non sono, dunque, segno di superficialità e stupidità; sono, al contrario, segni della consapevolezza della drammaticità della vita e della sua fine incombente.
Visti così, i film di Monicelli (e Loy), pensati e voluti da Germi, sembrano più equilibrati e meno superficiali di quanto appaiono a una prima visione. E ci invitano a dare un senso alla nostra vita, prima che sia troppo tardi.