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EMILIA ROMAGNA

Alluvione, un colpo alle nostre false certezze e richiamo a Dio

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Noi, che viviamo sull'Appennino emiliano e sentiamo la terra franarci sotto i piedi, sperimentiamo la vulnerabilità e la piccolezza dell'uomo, l'illusorietà degli idoli che ci siamo costruiti e su cui poggiamo la nostra vita. Eppure sembra che siamo sordi a questo richiamo ad alzare gli occhi al Cielo per riconoscere chi è il vero Signore.
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Creato 20_05_2023

Come sempre, di fronte ad una calamità di vaste dimensioni, come la duplice alluvione, a pochi giorni l’una dall’altra, che ha travolto l’Emilia Romagna da Bologna a Rimini, e che ha colpito la zona settentrionale delle Marche, inizia la caccia ai colpevoli. E in parte è anche giusto. Ci sono delle responsabilità umane, che vanno appurate, ma che molto spesso sono più profonde delle banalità che gli sciacalli mediatici stanno strombazzando per accelerare la “transizione ecologica”.

Noi che viviamo sull’Appennino sappiamo bene che queste zone sono divenute, almeno a partire dagli anni 1970-80, il dormitorio dei pendolari che scendono in città o la residenza estiva di cittadini, che emigrano in montagna per sfuggire al caldo soffocante. Case costruite un po’ dappertutto, anche laddove una persona non esperta, ma di buon senso, manifesterebbe molte perplessità. Ma il vero problema è che questa vocazione a dormitorio e villaggio turistico della montagna appenninica ha fatto sì che pochi vi risiedano veramente, lavorando sul territorio e lavorando il territorio. La conseguente incuria è ovvia, con tutte le conseguenze che esplodono non appena ci sono situazioni meteorologiche molto critiche.

Ma la riflessione dell’uomo non può e non deve fermarsi a questo livello. Perché il profluvio di spiegazioni, presunte e reali, di quanto è accaduto, può anche distoglierlo dalla domanda di senso. Ieri, risalendo a piedi una strada che è stata chiusa alle auto a causa di numerose frane, si vedeva l’acqua che usciva da ogni parte del terreno, come uno straccio ormai troppo impregnato per poter trattenere ancora qualcosa. Si udivano gli scricchiolii degli alberi e delle rocce, in cerca della loro stabilità. Si incontravano lunghe colate di fango e alberi sradicati, strade erose che davano nel vuoto, intere zolle di bosco scivolate in basso, con gli alberi ancora dritti.

La sensazione della precarietà, della vulnerabilità, della piccolezza dell’uomo. E poi il ricordo consolante del diluvio, agli albori dell’umanità, come castigo per il profluvio dei peccati. Sì, consolante. Perché non siamo in balìa degli eventi, ma è una mano provvida e giusta a permettere, di volta in volta, che gli uomini sperimentino ciò che sono realmente. È un richiamo forte e paterno, quello che è accaduto (e che è ancora in corso). Un appello a fermarsi, a non continuare su strade che potrebbero portare ad una catastrofe, senza possibilità di ritorno: le strade dell’uomo orgoglioso e idolatra delle opere delle sue mani, nelle quali confida per avere protezione, benessere, ricchezza, pompate dalla retorica del “costruiremo tutto, in fretta e meglio”, rantolo dell’uomo spiritualmente agonizzante.

Non sono l’operosità e la voglia di ricominciare il problema, ma quella pertinacia a non voler alzare gli occhi al Cielo, né abbassarli su noi stessi, per riconoscere che stiamo davvero esagerando. Perché quando gli uomini non ascoltano la voce della Chiesa – e non l’ascoltano neppure i pastori  -, Dio interviene direttamente, e permette che tocchiamo con mano dove ci stanno conducendo i nostri deliri.

Le promesse che non si morirà più di alcuna malattia, perché tra poco avremo i vaccini anche per la flatulenza intestinale; ma poi ci stiamo dimenticando le banali pulizie dei fossi. Le promesse – con il naso lungo – che con le auto elettriche sconfiggeremo per sempre l’inquinamento della biosfera; ma poi le strade si sbriciolano sotto i nostri occhi. Il sogno dell’uomo cittadino del mondo, senza confini né barriere; ma poi quella porzione di mondo in cui viviamo, ci crolla sotto i piedi. Le case super: super sicure, super coibentate, super moderne, da abbandonare senza avere nemmeno il tempo di portare nulla con sé, invase dal fango, dall’acqua, minacciate o travolte dalle frane. Abbiamo la speranza proiettata nel futuro che la tecno-scienza ci tratteggia come la condizione più perfetta che l’uomo possa raggiungere, addirittura super-umana, mentre il presente ci si sgretola tra le mani.

Sarà un caso che questi giorni di calamità siano coincisi con quelli che la Chiesa ha da secoli dedicato alle Rogazioni? A domandare l’intercessione di tutti i santi perché ci proteggano da ogni male? A supplicare Dio perché ci rimetta i nostri peccati e ci sia propizio? Preghiere, processioni, atti penitenziali di popolo che sono praticamente spariti: meglio affidarsi alla scienza.

Il Rituale romanum, uno dei libri liturgici “aboliti” da papa Francesco, contiene diverse processioni penitenziali, tra cui proprio quella per domandare a Dio il bel tempo. Credulità superstiziosa? Al contrario, un’espressione di fede nel governo che Dio esercita sulla creazione, tratta dal capitolo 8 della Genesi: Adduxisti, Domine, spiritum tuum super terram, et prohibitae sunt pluviae de caelo – Hai fatto passare il tuo spirito sulla terra, Signore, e fu trattenuta la pioggia dal cielo. E poi la supplica dall’umile consapevolezza che è a causa dei nostri peccati che veniamo percossi e la speranza della misericordia divina: ut, qui juste pro peccatis nostris affligimur… clementiam sentiamus – affinché noi che siamo giustamente afflitti per i nostri peccati, possiamo sperimentare la tua clemenza.

Intanto, ti ringrazio, Signore, perché ci togli le nostre false certezze e illusorie speranze; perché letteralmente ci fai franare la terra sotto i piedi. Perché non smetti di tentarle tutte per richiamarci a te, per mostrarci che gli idoli delle nostre mani sono impotenti, per allontanarci dalla strada di follia che abbiamo intrapreso ad alta velocità.