All'origine della guerra fra l'islam e l'ebraismo
Il massacro compiuto da due palestinesi nella sinagoga di Har Nof, sobborgo di Gerusalemme, riporta la guerra alla sua antica origine. Gerusalemme è la sede del Tempio che gli ebrei hanno rinunciato a ricostruire. E la sede di Al Aqsa, sorta sulle rovine del Tempio, luogo santo dell'islam.
L’esempio dei boia dello Stato Islamico ha contagiato i palestinesi di Gerusalemme? L’efferatezza della strage di martedì nel quartiere di Har Nof , il sangue a rivoli e nella larga striscia lunga una decina di metri visto sul pavimento della sinagoga “Kehilat Yaakov” ha sconvolto i telespettatori di ogni parte del mondo, lasciando intuire il martirio, con mannaia e coltelli, dei corpi dei quattro rabbini in preghiera e il macello degli altri fedeli ancora in vita – tre tuttora in lotta con la morte – nelle corsie dell’ospedale Hadassah di En Kerem. Come la morte dell’ufficiale di polizia, un druso della minoranza araba della Galilea, e il ferimento di un suo collega, lasciano immaginare la lotta con i due giovani terroristi, i cugini Uday e Rassan Abu Jamal (avevano rispettivamente 22 e 27 anni) prima della loro uccisione.
La scelta di una sinagoga per questa barbarie ne ha accentuato la connotazione religiosa. Ma questa riflessione, di per sé scontata, ha assunto una valenza particolare, addirittura emblematica per il mondo islamico, per il fatto che i protagonisti sono di Al Quds, nati e residenti cioè nella città (Santa per antonomasia), e con il loro sacrificio hanno voluto ribadirne il carattere sacro esclusivo per l’islam. Dove cioè, specialmente nella Spianata delle Moschee non può esservi posto per chi volesse contaminarla con altre preghiere che non siano quelle che sono state insegnate da Maometto in poi. Spianata che per la conquista del califfo Omar, e indipendentemente dalla riconquista di Saladino, è divenuta musulmana “per sempre”.
Solo che molti ebrei si rifiutano di accettare questo esclusivismo, in nome del quale vengono, più che offuscati, cancellati secoli di storia. Essi non possono non ricordare che la roccia ove è stata costruita la Moschea dalla grande cupola dorata, è la sommità del monte Moriah, quello del sacrificio di Abramo; sommità che fu livellata nel 968 a.C. da re Salomone per costruirvi il Tempio e il suo palazzo, abbandonati nel 586 a.C. al saccheggio dei soldati del conquistatore Nabucodonosor ; riedificato intorno al 515 a.C. con il ritorno dei deportati ebrei da Babilonia (l’editto di Ciro è del 538 a.C.); ricostruito e abbellito da Erode dopo il 37 a.C. e distrutto nel celebre assedio dell’imperatore romano Tito del 70 d.C.
Il desiderio di molti fedeli ultraortodossi di riedificare il tempio viene manifestato da quando nel 1967, con la Guerra dei Sei Giorni, Gerusalemme orientale è stata riunificata dallo stato di Israele alla parte occidentale conquistata nella prima guerra arabo-ebraica del 1948. Ho assistito, affascinato e recitando i Salmi di Davide, ad una cerimonia simbolica che si ripete sovente, al trasporto cioè della pietra angolare (mai sfiorata da uno scalpello metallico) su un carro trainato da due buoi, dall’ esterno delle Mura della città, e accompagnata da musicanti in festa, sino alla Piscina di Siloe e alla sua aspersione. Ma è sempre rimasto un “ pio desiderio” collocarla sulla Spianata perché Israele rispetta un accordo concluso appena dopo la conquista del 1967 con la dinastia hashemita di Giordania : questa pur avendo perduto la sovranità su Gerusalemme avrebbe mantenuto - e mantiene tuttora - il suo patronato dei Luoghi santi islamici della città; Israele non avrebbe permesso alcuna mutazione della situazione allora esistente relativa all’accesso e al culto. In base a tale “status quo” non consente ai fedeli ebrei di pregare sulla Spianata.
Impegno ribadito formalmente l’altra settimana dal primo ministro Benjamin Netanyahu a re Abdallah di Giordania dal quale si è recato in visita - coincisa con quella sempre ad Amman del Segretario di Stato americano John Kerry – per smorzare le tensioni accumulatesi da luglio, con il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi ebrei in autostop sulla via da Hebron ai loro villaggi del Gush Etzion, a sud di Betlemme, e poi nell’ultimo mese con attentati terroristici, conflitti a fuoco, scontri tra dimostranti e polizia, soprattutto a Gerusalemme, ove a un musulmano palestinese fallì il 30 ottobre il tentativo di uccidere il rabbino Yehuda Glick, che più volte in occasione delle festività di Succot aveva cercato con un gruppo di suoi seguaci di pregare sulla Spianata interdetta. Spianata che in due giorni, sia pure per poche ore, è stata chiusa dalla polizia israeliana agli stessi fedeli musulmani per motivi di ordine pubblico.
Sulla difesa a oltranza di questa Spianata si è sviluppata la politica dell’Autorità Nazionale Palestinese per il riconoscimento, da parte dell’Assemblea generale dell’ONU, dello stato indipendente. Falliti i tentativi di riatttivare il processo di pace con colloqui bilaterali, patrocinati da Stati Uniti, Unione Europea, Egitto e Giordania, il presidente Abu Mazen ha portato a successo il riavvicinamento, e la formazione di un governo, con il movimento fondamentalista Hamas al potere a Gaza. E nella condanna della “giudeizzazione” di Gerusalemme nessuno è rimasto indietro, i toni si sono alzati, Marwan Barghouti, il leader della resistenza armata palestinese, ha chiamato alla Terza Intifada dal carcere israeliano ove sconta la condanna a cinque ergastoli. Ricordiamo che la Seconda Intifada ebbe inizio nel 2000 a seguito della “passeggiata” – considerata provocatoria e oltraggiosa - di Ariel Sharon proprio sulla contestata Spianata di Gerusalemme.
In questo clima è maturata la strage nella Sinagoga. Tutto il mondo civile l’ha severamente bollata di infamia, Hamas l’ha esaltata, Abu Mazen non ha potuto non condannarla (fors’anche per non compromettere gli aiuti dell’Occidente). Netanyahu ha promesso una reazione dura e addossato a lui e a Hamas la responsabilità della strage per il “continuo incitamento all’odio contro gli ebrei e Israele, che, ha aggiunto, la comunità internazionale ha irresponsabilmente ignorato”. La preoccupazione e la deplorazione di papa Francesco e il suo forte appello affinchè si ponga “fine alla spirale di odio e di violenza” e siano prese “decisioni coraggiose” fanno ricordare, e rendono attuale, la sua preghiera per la riconciliazione e la pace fatta insieme con i presidenti palestinese e israeliano.
Il Patriarca Latino di Gerusalemme è entrato nel vivo del conflitto. Dopo aver presentato le sue condoglianze “ai parenti delle vittime dell’assalto alla Sinagoga e di tutte le vittime che insanguinano la Terra Santa” e assicurato “preghiere in tuttte le chiese, conventi e monasteri perché più che mai il Signore ci aiuti e aiuti i dirigenti politici a fare i passi giusti affinchè ci sia pace e sicurezza per tutti, tutti, tutti”, ha detto: “Occorre andare alle radici, togliere le cause della disperazione che genera violenza, interrompere la spirale infinita delle vendette. Altrimenti vivremo sempre tutti nella paura, senza libertà né dignità”. Da almeno trent’anni e fino ad oggi tuttavia queste imprescindibili esigenze si sono scontrate con le incomprensioni e con punti irrinunciabili delle parti in tutti gli innumerevoli tentativi di promuovere un accordo di pace.
Uno di questi punti è proprio Gerusalemme. Il compianto padre domenicano Marcel Dubois, che aveva fatto di Israele la sua patria, tutte le volte che parlavamo dell’annullamento compiuto dai musulmani della storia religiosa della città , e non solo quindi del loro rifiuto di nemmeno immaginare di consentire l’accesso alla Spianata per la preghiera degli ebrei (ed anche dei cristiani che tante memorie di Gesù hanno da venerare sul luogo e nell’area dello stesso Tempio ebraico), mi diceva che con questo rifiuto entravamo “nel mistero di Gerusalemme”.
Viene così spontaneo evocare il passo di Isaia sulla rinascita di Gerusalemme (62, 1-6): “Per amore di Sion non resterò in silenzio, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finchè non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada”. Come preghiera è stato scelto dal Vicariato del Patriarcato Latino di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica a chiusura di un suo documento sulla strage: “Il lutto scende di nuovo su Gerusalemme”, vi è detto. “La Città santa piange i suoi figli” quando “la sua vocazione è di essere una città di pace per tutti i suoi abitanti”.