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AL CUORE DI LEOPARDI/2

"Alla sua donna", professione d'amore per la Bellezza

Leopardi intuisce che il cuore dell'uomo sia desiderio e capacità di Infinito. Qualunque desiderio, una volta soddisfatto, risulta necessariamente circoscritto. Da qui inizia la tensione all'Infinito, come nel canto "Alla sua donna".

Cultura 22_09_2013
Leopardi

La lettera a Jacopssen è la prova più incontestabile che la domanda di felicità non sia venuta meno in Leopardi anche nei momenti di maggiore sconforto. L’atteggiamento del cuore che emerge in questa lettera potrebbe preludere alla conversione. Il poeta, infatti, si rende conto che è vera saggezza cercare la felicità nell’Ideale, ha nostalgia dell’epoca in cui ancora perseguiva ciò e riconosce che l’amico affronta la questione con «ragionevolezza e profondità».

All’età di venticinque anni Leopardi è già ben cosciente che il cuore dell’uomo è desiderio e capacità di Infinito, proprio come se fosse un contenitore che non può mai essere colmato da beni terreni finiti. Nello Zibaldone lo scrittore aveva usato l’immagine del cavallo: «Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come un piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, trovi un piacere necessariamente circoscritto e senti un vuoto nell’anima, perché quel desiderio che tu avevi effettivamente non resta pago».

Nei Pensieri, scritti più tardi, Leopardi descriverà questo desiderio di felicità infinita con il termine «noia». Essa è «in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani… il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile della spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo umano e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si vegga della natura umana» (Pensieri, LXVIII).

Pochi mesi più tardi della lettera a Jacopssen, nel canto «Alla sua donna» scritto nel settembre del 1823, il grande amore verrà identificato con la Bellezza con la «B» maiuscola. Vediamo il testo in forma integrale:

Cara beltà che amore
Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne’ campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?

Viva mirarti omai
Nulla spene m’avanza;
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
saria, così conforme, assai men bella.

Fra cotanto dolore
Quanto all’umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg’io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
L’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.

Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m’abbandona;
E per li poggi, ov’io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de’ giorni  miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess’io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
l’alta specie serbar; che dell’imago,
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.

Se dell’eterne idee
L’una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s’altra terra ne’ superni giri
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.

Leopardi chiede alla bellezza, a quella bellezza che traluce dal paesaggio naturale o dall’etereo volto di una donna, dove abiti, dal momento che al presente è difficile afferrarla o vederla: forse nell’età dell’oro, in un mitico passato, o in un futuro di cui a noi non è dato godere? L’unica possibilità per il poeta è quella di percorrere un sentiero nuovo, diverso da quelli fino ad allora percorsi e di incontrarla, così come spesso Leopardi sperava da giovane. Questa bellezza è quanto di più grande l’uomo possa immaginare in terra: è la Bellezza con la «B» maiuscola, l’Ideale.

Se qualcuno la amasse, la sua vita sarebbe più felice, sarebbe come quella che nel cielo «india», cioè porta a Dio; se l’amasse, l’uomo cercherebbe la virtù, la bontà.

Al poeta (più in generale all’uomo), privato della Bellezza, basterebbe anche solo conservarne l’immagine in mezzo agli affanni della vita quotidiana.

L’ultima stanza è una preghiera rivolta alla Bellezza. Leopardi la apostrofa invocandola a ricevere, ad accogliere quest’inno, sia nel caso in cui viva nell’iperuranio come una delle idee platoniche, sia nel caso in cui viva nei cieli superiori, lontano da noi. È il desiderio che l’Ideale, il Bello, l’Infinito sia qui tra noi, possa essere esperienza «di qua dove son gli anni infausti e brevi». È la preghiera che il Bello si faccia carne, possa assumere forma umana.
 
In quel «Se dell’eterne idee/ L’una sei tu, cui di sensibil forma/ Sdegni l’eterno senno esser vestita» Leopardi sembra avvertire l’urgenza di Dio e lo invoca, lo sfida a epifanizzarsi: è un grido umanissimo (perché Dio non ti riveli?) che si tramuta in preghiera o in invocazione (Dio rivelati). «Questo d’ignoto amante inno ricevi»: mai professione d’amore fu più esplicita per il Bello, per quell’Infinito che solo può dar senso alle nostre giornate!