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FOSCOLO. ASSOLUTO E ILLUSIONI/ 8

Alla Sera, quell'inconsolabile anelito all’eternità

Il sonetto Alla sera apre l’edizione delle Poesie del 1803, ad indicare forse anche la particolare importanza che Foscolo gli assegna. In effetti, il componimento è una delle realizzazioni più compiute del poeta e riprende un tema a lui particolarmente caro. La sera con il cielo stellato comunica l’impressione dell’eterno.

Cultura 05_04_2015
Ugo Foscolo

Il sonetto Alla sera apre l’edizione delle Poesie del 1803, ad indicare forse anche la particolare importanza che Foscolo gli assegna. In effetti, il componimento è una delle realizzazioni artistiche più compiute del poeta e riprende un tema a lui particolarmente caro: la riflessione sulla sera. 

Già nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis leggiamo pagine bellissime dedicate alla sera come quella del 13 maggio 1798 in cui il protagonista scrive a Lorenzo Alderani: «Jer sera appunto dopo più di due ore d'estatica contemplazione d'una bella sera di Maggio, io scendeva a passo a passo dal monte. Il mondo era in cura alla Notte, ed io non sentiva che il canto della villanella, e non vedeva che i fuochi de' pastori. Scintillavano tutte le stelle, e mentr'io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva un non so che di celeste, ed il mio cuore s'innalzava come se aspirasse ad una regione più sublime assai della terra. Mi sono trovato su la montagnuola presso la chiesa: suonava la campana de' morti, e il presentimento della mia fine trasse i miei sguardi sul cimiterio dove ne' loro cumuli coperti di erba dormono gli antichi padri della villa: - Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce - umana sorte! men felice degli altri chi men la teme». La sera con il cielo stellato comunica l’impressione dell’eterno che il protagonista riesce a sostenere per poco tempo. Basta il suono delle campane a morto perché la riflessione di Ortis torni alla precarietà della condizione umana e alla paura che l’uomo possa consistere in nulla più che polvere.

Nel sonetto «Alla sera» svanisce del tutto la dimensione religiosa del creato, il cielo stellato non è più segno del creatore, rimane soltanto la dimensione materialistica dell’esistenza. Foscolo riconosce nella sera solo l’«immago» della «fatal quiete». Nella cultura latina l’imago rappresenta il calco degli antenati, da collocarsi nell’atrio d’ingresso della casa ad imperitura memoria dei cari defunti. Foscolo apre il sonetto con un’ipotesi, non con una constatazione certa. È come se il poeta stesse rispondendo ad una domanda che qualcuno gli ha posto o che lui stesso si è posto: perché la sera gli è sempre così gradita e scende «invocata», sia nel contesto estivo che in quello invernale? Foscolo mostra qui la sua grande perizia nel comporre piccoli quadretti. Se lo scrittore difetta nel dare un’unità e un’organicità ai lunghi componimenti, come si può constatare nel romanzo Ortis e nel carme I sepolcri, di certo appare un grande virtuoso nei brevi squarci lirici. Il quadretto estivo appare qui delineato dalle nubi liete e dai zeffiri sereni, cioè rasserenanti, perché spazzano via le nubi rendendo cristallina l’aria, mentre l’inverno arriva con l’aria nevosa e con le notti lunghe e inquiete. In ogni caso la sera occupa sempre il cuore del poeta. 

La lettura ad alta voce del sonetto sottolineerebbe la grande capacità di Foscolo di trasmettere un senso consolatorio e rasserenante attraverso l’uso di suoni aperti «a» ed «e» nelle prime due quartine: «fatal», «quiete», «cara», «sera», «vagar», «eterno», «invocata», etc. Nel contempo l’allungamento delle parole «quiete» e «inquiete» attraverso la dieresi trasmette l’impressione del tempo che si ferma nella riflessione della sera, quando anche le passioni e le palpitazioni del cuore sembrano trovare una pausa prima del sonno. Così, mentre il poeta parla della morte, al contempo ci trasmette la serenità e la consolazione. E ancora gli enjambements molto presenti (vv. 1-2, 3-4, 5-6, 7-8) trasmettono sia l’impressione del passaggio del tempo che ci separa dalle persone amate e ci conduce rapidamente alla morte sia il senso della stasi, dell’immobilità e della serenità che ci saranno quando i furori guerrieri saranno del tutto spenti.

Le due terzine sono molto dinamiche e movimentate. Dominano i verbi di movimento («vagar», «vanno», «fugge», «van») e di struggimento («strugge», «rugge»), mentre i suoni sono aspri, soprattutto per la frequente allitterazione della «r», come ad esempio nell’ultimo verso: «Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge». Gli echi oraziani (Carmina II, XVI, 21-22) si mescolano a quelli petrarcheschi (R. V. F. CCLVI), la memoria di Giovanni della Casa (sonetto «Feroce spirto un tempo ebbi e guerriero») si sovrappone a quella di Jacopo Sannazzaro («Amor più forte rugge» in rima con «strugge» e «fugge» nel sonetto LI, vv.10-14). Il «reo tempo» che fugge, ricalcato sull’«invida aetas» oraziana («il tempo invidioso»), se da un lato ci strappa quanto abbiamo di più caro, dall’altro ci conduce al «nulla eterno» e alla «pace». 

Questa visione consolatoria della morte, dagli echi epicurei e lucreziani, è un’ennesima illusione di Foscolo che non sa trovare reale conforto nella considerazione che la nostra vita possa terminare con un destino così crudele come l’annichilimento dell’io, nella trasformazione in quella «muta cenere» di cui già si è parlato in merito a In morte del fratello Giovanni. Il cuore dell’uomo anela, infatti, all’eterno e se l’uomo non crede all’eternità si affida alla religione di un’oltranza tutta mondana, quella fiducia nella fama e nell’immortalità attraverso la grandezza delle azioni umane che non può davvero soddisfare il nostro anelito infinito. Siamo ad un passo dal grandioso carme I sepolcri composto nell’agosto del 1806 e pubblicato nel 1807. 

Leggiamo allora il sonetto Alla sera nella sua interezza: «Forse perchè della fatal quïete/ Tu sei l’immago a me sì cara, vieni,/ O Sera! E quando ti corteggian liete/ Le nubi estive e i zeffiri sereni,// E quando dal nevoso aere inquiete/ Tenebre, e lunghe, all’universo meni,/ Sempre scendi invocata, e le secrete/ Vie del mio cor soavemente tieni.// Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme/ Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge/ Questo reo tempo, e van con lui le torme// Delle cure, onde meco egli si strugge;/ E mentre io guardo la tua pace, dorme/ Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge».