Alla ricerca di un altro Padre
Un'infanzia difficile e una vita segnata da un desiderio di appartenenza che né l'adorata moglie né la sua amata Trieste potevano colmare. Così Umberto Saba si convertì al cattolicesimo.
Nato a Trieste nel 1883, conterraneo, quindi, di Svevo, di madre ebrea (Coen) e di padre italiano (Poli), Umberto sceglie il nome di Saba forse per riecheggiare il termine ebraico del «pane» o forse per richiamarsi alla balia Gioseffa Schobar che ha un ruolo molto importante nella sua vita. In effetti, il padre lascia la famiglia dopo pochi mesi di matrimonio e lui cresce allevato più dalle cure della balia che della madre. La ricerca delle proprie origini, lo scavo nel proprio passato infantile e adolescenziale caratterizzeranno tutta la produzione del poeta adulto. Anche lui, come il padre, che non voleva legami, sente già a quindici anni il desiderio di viaggiare, lascia il ginnasio e si imbarca come mozzo su una nave.
Già da questo fatto possiamo cogliere i segni del letterato diverso, autodidatta, educatosi da solo sui testi della tradizione italiana (da Petrarca a Leopardi) e tedesca (su tutti il poeta romantico Heine, da cui mutuerà il termine Canzoniere della sua raccolta poetica che raccoglie tutta le altre sillogi). Solo a vent’anni Saba conoscerà il padre, presentatogli dalla madre sempre come un assassino, un uomo incapace di legarsi ad una donna e di assumersi responsabilità nei confronti di una famiglia. Documento poetico di questa esperienza autobiografica è il sonetto «Mio padre è stato per me come un assassino» in cui Saba comprende che ha ricevuto da lui il desiderio di libertà (lo sguardo azzurrino del volto) che ha nel cuore.
L’incontro con il padre è, forse, la prima tappa del percorso di ricerca di un’appartenenza che lui, poi, identificherà nel tempo con un’espressione che dà il titolo alla raccolta Trieste ed una donna (1912). Nella poesia «Ed amai nuovamente» Saba spiega: «Trieste è la città, la donna è Lina, / per cui scrissi il mio libro di più ardita// sincerità; […] Per Lina vorrei di nuovo un’altra/ vita, di nuovo vorrei cominciare. // Per l’altezze l’amai del suo dolore». Già qui si coglie il carattere prosastico della scrittura di Saba: alcune inversioni e la presenza dei versi definiscono la poeticità di un testo che ha un andamento, una sintassi e un lessico talvolta più adatti alla narrativa che alla lirica.
Saba è uno dei pochi poeti che scrive della moglie. Nella poesia «A mia moglie», ove ne esalta le virtù semplici, la paragona a «tutte/le femmine di tutti/i sereni animali/che avvicinano a Dio» e a «nessun'altra donna». Traspare una religiosità panteistica, tutta giocata di richiami a libri dell’Antico Testamento, dall’Ecclesiaste al Cantico dei Cantici. A Trieste Saba dedicherà poesie che diverranno celeberrime. Trieste ha «una scontrosa/ grazia», «se piace,/ è come un ragazzaccio aspro e vorace,/ con gli occhi azzurri e mani troppo grandi/ per regalare un fiore,/ come un amore con gelosia» («Trieste»). La commistione di narrazione, di descrizione e di riflessione caratterizza questa poesia, come pure «Città vecchia» dove il poeta racconta di aver preso una via della città vecchia e descrive il degrado dell’ambiente che è sfondo della miseria umana. Il poeta è catturato dall’umanità che incontra, la «prostituta e marinaio, il vecchio/che bestemmia, la femmina che bega,/il dragone che siede alla bottega/del friggitore,/la tumultuante giovane impazzita/d'amore».
Saba scopre in loro la presenza dell’Infinito e del Signore, vi intravede le sue stesse domande, i suoi bisogni, il suo desiderio di Infinito. Il suo pensiero si fa «più puro» quanto più bassa ed emarginata è quell’umanità non inquadrabile nel perbenismo benpensante e borghese. È sempre la quotidianità a riempire le pagine delle altre sue poesie, dalla figura della balia Gioseffa alla figlia nata dalla moglie e soprannominata Linuccia al calcio («Goal») alla figura di una capra per cui prova compassione («La capra»). Saba vuole ritornare alla tradizione, alla rima «fiore/amore, la più antica difficile del mondo», ama «parole trite che non uno/ osava […], la verità che giace al fondo,/ quasi un sogno obliato, che il dolore/ riscopre amica» (dalla poesia «Amai»). In questa sorta di testamento spirituale, il poeta, al contrario di molti suoi poeti contemporanei, afferma di amare la poesia semplice, di più facile accesso. Le parole più belle e più pregnanti sono anche quelle più abusate, Saba le vuole recuperare nel loro pieno significato. La parola poetica giace nella profondità dell’io, per questo il poeta deve come immergersi in profondità, in uno scavo interiore. La conquista della parola poetica è come la conquista della verità, comporta una fatica e un dolore.
Si capisce allora meglio l’antidannunzianesimo di Saba, ben espresso nell’articolo «Quello che resta da fare ai poeti» (1912). Ai poeti non resta da fare che «poesia onesta», come quella manzoniana. Nei versi del poeta lombardo traspare «la costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda alla sua visione», mentre D’Annunzio sembra quasi voler circuire il lettore ingigantendo in maniera ipertrofica il proprio io e le proprie esperienze. Dovere del poeta onesto è non forzare mai l’ispirazione volendo farla apparire più grande di quella che essa in realtà è. Da qui scaturisce il carattere autobiografico, quasi diaristico del suo Canzoniere, in maniera simile alla Vita di un uomo di Ungaretti. Da qui proviene il valore terapeutico della sua scrittura, in maniera analoga a quella di Svevo. Anche per questo motivo Saba non guarda mai con convinzione alle avanguardie storiche dei primi decenni del Novecento, che rompono con il passato letterario, ma cerca di riappropriarsi delle forme metriche della tradizione. Forse proprio per l’impasto di aulico e prosaico della lingua di Saba, i giudizi su di lui furono i più diversi.
Se Pasolini riteneva questo poeta «il più difficile dei poeti contemporanei», Aldo Palazzeschi lo considerava «il più semplice, il più puro». La vita del triestino è stata una continua ricerca mossa dall’ardore di conoscere come il poeta racconta nell’«Ulisse» che conclude il gruppo Mediterranee scritto tra il 1945 e il 1946: «Nella mia giovinezza ho navigato/ lungo le coste dalmate». Molti hanno raggiunto il loro porto, hanno trovato il luogo in cui riposare o in cui credere. Così non è per lui: «Oggi il mio regno/ è quella terra di nessuno. Il porto/accende ad altri i suoi lumi; me al largo/sospinge ancora il non domato spirito,/e della vita il doloroso amore». Il poeta non approda ad alcun porto, ma continua a navigare in una ricerca inesausta.
Così, ancora nella poesia «Ultima» appartenente a Sei poesie della vecchiaia composte nel 1953 e nel 1954, Saba scrive: «Variamente operai, se in male o in bene/ io non so; lo sa Dio, forse nessuno./ Mai appartenni a qualcosa o a qualcuno./ Fui sempre («colpa tua» tu mi rispondi)/ fui sempre un povero cane randagio». Quel desiderio di appartenenza, sempre cercato e sempre, al contempo, sfuggito, non poteva trovare soluzione né in una donna (la moglie) né in una città (Trieste). Solo qualcosa di infinitamente più grande avrebbe potuto colmare la sua ansia di compimento e di pienezza. Forse traccia di un approdo o di una rotta più chiara si hanno nella conversione di Saba al cattolicesimo avvenuta negli ultimi anni di vita, conclusasi nel 1957, poco dopo la morte della tanto amata moglie.