Alla Mangiagalli si fa eugenetica? L'assessore tace
Sul tavolo dell'assessore alla Sanità della Lombardia, giace inevasa una domanda grande come una casa, anzi come una clinica, la Mangiagalli di Milano. E cioè: con la diagnosi di preimpianto sugli embrioni non si arriva all'eugenetica? Lo chiedono i dirigenti della clinica, il Corriere li attacca, l'assessore non risponde.
«Un passo avanti, due passi indietro… Ciò accade nella vita degli individui, nella storia delle nazioni, nello sviluppo dei partiti». Conoscete la citazione? Sono parole usate per condannare l’opportunismo di alcuni rivoluzionari inconcludenti dal capo dei bolscevici, quel Vladimir Il'i? Ul'janov più noto come Lenin. Beh, questo modo di procedere potrebbe venire buono anche per definire il comportamento della giunta regionale lombarda, capeggiata da Roberto Maroni, governatore e arruffapopolo a fasi alterne. Aveva appena compiuto un passo avanti con lo stop alla fecondazione eterologa gratuita per tutti ed ecco che, come il gambero di Lenin, ne fa due in retromarcia. Beh, non lui: il suo assessore alla Sanità. Che prima tace a chi gli chiede un parere, poi dice sì a una tecnica che apre le porte alla selezione eugenetica. Dunque, mica roba da niente. Sul tavolo di Mario Mantovani, responsabile della Sanità lombarda, giace ancora inevasa una domanda grande come una casa, anzi come una clinica, la Mangiagalli di Milano. E cioè: è lecito o no praticare la diagnosi di preimpianto sugli embrioni concepiti con la fecondazione assistita? E se sì, perché e con quali limiti? Interrogativi ai quali l’assessore non risponde, neppure con un forse.
La storia inizia con una lettera che i primari della clinica milanese mandano ai loro dirigenti per informarli di essere pronti a partire con la diagnosi di reimpianto: macchinari e attrezzature ci sono, il personale è allertato ma, soprattutto, è «moralmente doveroso» iniziare poiché una sentenza della Corte europea «ha sancito che il divieto della diagnosi preimpianto stabilito dalla Legge 40 lede i princìpi basilari delle libertà umane». Insomma, inutile aspettare e poi ce lo chiede l’Europa. Ma i vertici, cioè Giancarlo Cesana e Luigi Macchi, presidente e direttore della Fondazione Policlinico Mangiagalli, non sono della stessa idea. Ritengono che la procedura possa avere «possibili implicazioni eugenetiche» e, dunque, prima di dare il via libera, scrivono all’assessore Mantovano chiedendo lumi. Siamo giugno, l’assessore per tre mesi fa lo gnorri e prende tempo. Fino a quando, è il 16 settembre, una coppia minaccia di trascinare la clinica in Tribunale se non si procede con l’esame. Con la coppia si schierano i radicali con il supporto esterno del Corriere della Sera che ne fa subito una battaglia di civiltà. Quella del diritto alla selezione compassionevole degli embrioni, contro le remore cattoliche e antiprogressiste. Il gioco non è nuovo, soprattutto per il Corriere, ma funziona sempre. Ed ecco che quei medici impazienti di trafficare con gli embrioni sono portati d’ufficio al rango di “luminari”, in lotta contro l’oscurantismo ideologico dei “vertici ciellini regionali” (Cesana e Macchi). E la rischiosa pratica del reimpianto, solo «un innocuo esame», il cui «obiettivo è di evitare che i genitori trasmettano a un bambino malattie genetiche gravi». Così scrive la cronista dell’improbabile Corriere dei piccoli.
A ciascuno il suo: ai “medici luminari” della Mangiagalli, la manipolazione degli embrioni, alla cronista del Corriere quella, decisamente più facile, delle coscienze. Con tanti saluti al diritto dei lettori di essere informati, anche sulle perplessità dei vertici e su come funziona davvero la diagnosi reimpianto. Che non è una passeggiata per la donna, tantomeno evita rischi al bambino, ma è una selezione tra embrioni sani e malati. Da usare o da scartare, una volta tolti dal freezer. Come la vogliamo chiamare questa pratica che sceglie e scarta perché dal catalogo embrionale esca finalmente il bimbo sano e su misura? Certo, malattie e malformazioni sono sconfitte alla radice, ma non la pensavano così anche i nazisti? Beh, ce n’è abbastanza per piegare anche la reticenza dell’assessore Mantovani che finalmente trova il tempo per dire qualcosa. «Per le coppie infertili», dichiara al Corriere, «conoscere lo stato di salute dell’embrione mediante indagini cliniche e diagnostiche è un diritto, perché la legge 40, in questi casi, prevede la possibilità di conoscere lo stato di salute dell’embrione». E ancora: «nel caso specifico, l’azienda ospedaliera aveva già tutti gli strumenti giuridici necessari, senza che ci fosse bisogno di interventi da parte della Regione». Tradotto: che volete da me, le leggi ci sono e mica le ho fatte io. E l'eugenetica? Mah, fate un po’ come vi pare e non mettete in mezzo l’assessore.
Beh, poche parole ma sufficienti far barcollare la reputazione una Regione pro life come la Lombardia che sull’eterologa ha dato prova di coerenza e dignità politica. Avrebbe potuto farlo anche in questo caso, ma così non è stato. In fondo, si trattava solo di mettere nero su bianco entri quali limiti e secondo quali criteri nella diagnosi reimpianto andrebbero scartati gli embrioni malati. «Noi non abbiamo sbagliato a chiedere l’autorizzazione alla Regione», dice il presidente Cesana. «Ci sono aspetti bioetici da chiarire. Del resto, se la questione fosse stata semplice non ci sarebbe stato bisogno dell’intervento della Corte europea e di una serie di sentenze del Tribunale. Adesso la Regione ci risponda ufficialmente, noi le regole le vogliamo conoscere chiaramente». Già, carta canta, ma Mantovani dorme.