Alla fine la passione sfrenata di Didone vince
Il matrimonio tra Didone ed Enea, celebrato in gran segreto e sancito dal rapporto avvenuto in una grotta durante il temporale, non viene stipulato davanti alla cittadinanza: più che l’assunzione di una responsabilità per il consorte dinanzi ai familiari e ai sudditi con il conforto dei riti tradizionali appare come il cedimento ad una tentazione dei sensi, immersa nel contesto di una natura scatenata.
Intanto il sommo dio, Giove, convoca il figlio Mercurio e gli affida il compito di comunicare ad Enea che la terra voluta per lui dagli dei non si trova in Africa, ma è l’Italia: perché quindi sta sostando a Cartagine? «Navighi! Questa è la conclusione, questo sia il nostro avviso» sono le ultime parole categoriche di Giove.
Celermente Mercurio si reca dal capo troiano, tutto dedito a fondare rocche e a costruire nuove case. Lo rimprovera con dure parole e lo richiama ai suoi compiti:
[…] O con che speranza rovini il tempo in terre libiche?
Se non ti smuove nessuna fama di tante imprese
né tu affronti l’impegno per la tua gloria,
guarda ad Ascanio che cresce ed alle speranze dell'erede
Iulo, cui è dovuto il regno d'Italia e la terra
Romana. […]
Enea ammutolisce; fuori di sé, non sa con quali parole possa comunicare alla regina cartaginese la nuova deliberazione. Il capo troiano non mette neppure in discussione il comando ricevuto dagli dei. «Brucia di andarsene in fuga e lasciare le dolci terre,/ attonito per sì grande monito e ordine degli dei». Non sa, però, quali parole usare per comunicare a Didone l’improvvisa partenza. Chiede ai compagni di allestire la flotta, dissimulando le vere ragioni di quei preparativi.
È la stessa empia Fama, quella che ha comunicato ai sovrani africani le nozze di Didone, a svelare alla regina (già in sospetto) i preparativi della partenza di Enea e dei Troiani. La donna impazzisce e smania come una baccante per la città. Poi è lei a cercare l’amato e lo assale con parole dure:
Sperasti pure poter dissimulare, perfido, sì gran
sacrilegio e zitto allontanarti dalla mia terra?
Né ti trattiene il nostro amore né la destra data un giorno
né una Didone destinata a morire di morte crudele?
Nelle sue parole c’è l’accusa di aver rotto il patto di fiducia e di lealtà attraverso l’inganno. Il verbo dissimulare comunica la finzione e la falsità che Enea nasconde, mentre l’aggettivo perfide sottolinea l’allontanamento e la devianza (in questo caso con il prefisso per-) dalla fides (la parola data, la fedeltà). Il progetto che Enea sta attuando è nefas, azione illecita dinanzi agli dei, alla morale e al diritto. Si noti che le accuse della regina sono mosse prima che lei sappia le ragioni che muovono Enea a partire. Didone incalza l’eroe accusandolo di partire in inverno, al freddo e con il mare mosso, per terre ancora sconosciute. Forse fugge da lei? Lo scongiura di non andarsene in nome delle lacrime che lei ha sparso, della promessa data, dei vincoli creati tra i due popoli, delle nozze intraprese, della tenerezza che li ha legati. Lo implora di aver pietà di una reggia che sta crollando. Lo prega, se c’è ancora spazio per le preghiere, di scacciare l’idea della partenza. Gli ricorda che a causa di lui Didone ha estinto il suo pudore, ovvero la promessa di fedeltà alle ceneri di Sicheo, primo marito, e si è creata nemici in tutta l’Africa. Enea parte senza avergli lasciato neppure un figlio che lo ricordi nel volto e negli atti. Se lei aspettasse un figlio, forse non si sentirebbe «del tutto delusa e abbandonata».
Enea replica che il destino dei Troiani è cercare altre terre in Italia, come l’ha ammonito il padre degli dei, Giove, in sogno. Le sue parole sono categoriche e non lasciano spazio a ripensamenti: «Smetti di incendiare me e te coi tuoi pianti;/ l’Italia la inseguo non spontaneamente».
Disperata, Didone prorompe con parole infuocate: Enea non è figlio di dea, ma generato dalle rocce del duro Caucaso e allattato dalle tigri; non ha sparso una lacrima dinanzi alla sua disperazione; eppure, è stato accolto da lei ed è perfino divenuto compartecipe del suo regno. L’amore di Didone si tramuta ora in odio e in malaugurio per Enea:
Va, insegui coi venti l'Italia, cerca regni attraverso le onde.
Spero davvero che in mezzo a scogli, se le pie preghiere
posson qualcosa, berrai i supplizi e spesso chiamerai per nome "Didone!". Assente t'inseguirò con neri fuochi
e, quando la morte separerà le membra dall'anima,
io, ombra sarò in tutti i luoghi. Pagherai, malvagio, il fio.
Sentirò anche sotto i profondi Mani verrà tale notizia.
La lettura del testo latino trasmette una ricchezza espressiva che la traduzione non può in alcun modo rendere. La posizione delle parole, l’uso di certi termini al posto di altri e tanti artifici retorici della lingua comunicano un’icasticità e una concretezza nelle immagini. Il discorso vale ovviamente per tutta l’Eneide che dovrebbe essere rigorosamente commentata in latino. Il senso di questo percorso impone un lavoro sui versi in traduzione italiana. Sia sufficiente leggere pochi versi in lingua originale per cogliere la ricchezza del testo:
I, sequere Italiam ventis, pete regna per undas;
spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,
supplicia hausurum scopulis et nomine Dido
saepe vocaturum. […]
Didone comanda all’eroe troiano di andarsene (i, pete) con l’uso dell’imperativo. Invoca poi gli dei, quelli pietosi (l’aggettivo pia riferito a numina richiama la prerogativa fondamentale di Enea), perché il troiano possa espiare la sua colpa in mezzo al mare. L’augurio di morire nel viaggio è comunicato con l’espressione «mediis […]/ supplicia hausurum scopulis». Il verbo haurio significa «bere fino in fondo», un verbo che ben si accorda all’auspicio che Enea possa annegare tra gli scogli. I castighi che patirà (supplicia) sono collocati tra le due parole mediis («in mezzo») e scopulis («scogli»).
Didone ricorrerà ad un ultimo tentativo per impedire a Enea di partire. Chiederà alla sorella Anna di farsi mediatrice presso di lui, perché attenda almeno tempi più propizi e venti favorevoli. Lei avrà così tempo per imparare a soffrire. Il furore avrà «quiete e spazio» per manifestarsi. Anna adempie all’incarico assegnatole, ma Enea appare impassibile.
Il furor ha ormai preso il sopravvento nella regina. Lei, che ha dimenticato di essere regina, di aver giurato fedeltà al marito, che si è abbandonata totalmente e irrazionalmente alla passione amorosa, ora medita il suicidio: la distruzione di sé e l’abbandono totale delle responsabilità nei confronti dello Stato, di una Cartagine non ancora completamente costruita. Il furor (passione sfrenata) ha vinto sul labor (fatica e sacrificio) da cui nascono il lavoro e l’opera umani.