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TENSIONI NEL PAESE AFRICANO

Algeria, le elezioni rinviate e “il Potere” che non molla

Dopo i casi di Repubblica Democratica del Congo e Nigeria, adesso è l’Algeria a posticipare il voto. In seguito all’annuncio che il presidente Bouteflika si sarebbe candidato per un quinto mandato sono scoppiate le proteste, che hanno condotto il capo di Stato a ritirare la sua candidatura e annunciare lo slittamento delle elezioni. Finora sine die.

Esteri 15_03_2019

Rimandare le elezioni sembra essere la tendenza del momento in Africa. E il caso dell’Algeria, l’ultimo in ordine di tempo, sta lì a ricordarcelo. Per prima è stata la Repubblica Democratica del Congo, dove il voto era previsto il 23 dicembre 2018 e invece è stato spostato al 30 dicembre, per disguidi “dell’ultimo momento” nell’allestimento dei seggi e per la mancata consegna di milioni di schede elettorali. La decisione di far slittare il voto aveva suscitato molta tensione perché l’elezione del capo dello Stato era già stata rinviata per due anni e nel frattempo il presidente Joseph Kabila, il cui mandato era scaduto a dicembre del 2016, era rimasto in carica. Però, questa volta i seggi si sono aperti regolarmente, o quasi. Il voto è stato infatti rimandato al mese di marzo in tre distretti infestati da bande armate, resi insicuri da scontri etnici, due dei quali oltretutto colpiti da una epidemia di Ebola, per un totale di oltre un milione di elettori. Finora non si ha notizia di preparativi e sembra quindi molto probabile che quei cittadini congolesi non voteranno affatto.

Anche in Nigeria è stato rimandato il voto: dal 16 al 23 febbraio, per l’elezione del capo dello Stato e del parlamento, e al 9 marzo, per l’elezione dei governatori e dei parlamenti dei 36 Stati della federazione. La Commissione elettorale lo ha deciso solo cinque ore prima dell’apertura dei seggi adducendo motivi tecnici e logistici: tra l’altro, nientemeno che il mancato recapito di gran parte del materiale elettorale. La mattina del 23 febbraio sono iniziate le operazioni di voto, però ancora mancavano delle schede e nei campi profughi del nord-est mancavano i seggi. Forse anche per questo l’affluenza alle urne è stata solo del 35,5%. Il 9 marzo è successo di peggio. In sei Stati - Adamawa, Benue, Sokoto, Plateau, Bauchi, Kano - il voto è stato dichiarato “inaffidabile” perché si è scoperto che i conteggi non erano stati fatti correttamente e nello Stato di Rivers lo spoglio delle schede è stato interrotto perché sono stati rapiti degli scrutatori e si sono verificati numerosi episodi di violenza ai seggi e ai centri di raccolta dei dati. La Commissione elettorale garantisce che in quei sette Stati si potrà votare entro la fine di marzo.

Adesso è appunto la volta dell’Algeria. Le elezioni politiche erano fissate il 18 aprile, ma l’11 marzo sono state rinviate in un clima di crescente tensione. L’annuncio, nelle settimane precedenti, che il presidente Abdelaziz Bouteflika si sarebbe candidato per un quinto mandato ha scatenato manifestazioni di protesta a cui hanno aderito - tra gli altri - insegnanti, avvocati, giornalisti, studenti, accomunati dalla collera per una decisione percepita come un’imposizione irresponsabile e inaccettabile non solo perché il presidente è in carica dal 1999, ma perché ha 82 anni e perché nel 2013 è stato colpito da un ictus e ormai può a stento camminare e parlare.

L’11 marzo è successo che oltre 1.000 magistrati hanno dichiarato che avrebbero rifiutato di sovrintendere alle elezioni se Bouteflika si fosse candidato. Questo e altri importanti segnali di dissenso, più che le proteste popolari, sono stati decisivi. In giornata l’ufficio di presidenza informava il Paese che Bouteflika rinunciava a candidarsi e che aveva appunto disposto il rinvio del voto. Subito dopo il primo ministro Ahmed Ouyahia ha rassegnato le dimissioni, sostituito dal ministro dell’interno Noureddine Bedoui con l’incarico di formare in tempi brevi un nuovo governo.

Sembrerebbe una vittoria della popolazione insorta. Ma il rinvio, in effetti necessario per riorganizzare la campagna elettorale e le candidature, è sine die. Non si è parlato di date né di eventuali dimissioni del presidente. È possibile che, come è successo in Congo per due anni, il suo mandato venga prolungato fino alle prossime elezioni e con esso il potere sul Paese dei suoi stretti collaboratori, tra i quali figura il fratello minore Said, che controlla di fatto la presidenza.

“Il Potere”: con questa espressione gli algerini sono soliti riferirsi alla leadership che governa l’Algeria dal 1962, l’anno dell’indipendenza, dominata dal Fronte di liberazione nazionale (Fln), composta da politici, alte cariche militari e grandi esponenti del mondo dell’economia. È contro “il Potere” che, esasperati e delusi, riempiono le strade gli algerini in rivolta, contro il suo sistema corrotto e clientelare, consolidato dalla connivenza e dalla complicità di almeno una parte dell’opposizione. Lo hanno fatto anche nel 2011, l’anno della Primavera araba e 20 anni prima, alle elezioni del 1999; per questo avevano votato i fondamentalisti del Fis, il Fronte islamico di salvezza, che denunciava il malgoverno dell’Fln e prometteva rigore e moralità sotto la guida della sharia, la legge coranica tradita.

Si sentivano traditi, profondamente offesi gli algerini che per otto anni avevano combattuto una delle più cruente lotte d’indipendenza, rispondendo all’appello dei leader dell’Fln, nella convinzione che l’indipendenza, sotto la loro guida, avrebbe portato libertà, sviluppo, giustizia.

Alla sospensione del secondo turno elettorale, decisa dal governo nel timore che il Fis vincesse, gli integralisti hanno reagito con violenza. La successiva guerra civile, in dieci anni, ha provocato almeno 150.000 morti e ha devastato il Paese. È in Algeria che in quel periodo è nato il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc) che nel 2005 si è legato ad Al-Qaida cambiando il nome in Aqmi (Al Qaida nel Maghreb islamico), gruppo dal quale sono germinate cellule e gruppi jihadisti ora attivi in tutto il Sahel.