Alfie, il paradosso di una morte senza autori
L'impossibilità di conoscere le cause vere della morte di Alfie Evans impedisce di accertare le reali responsabilità di medici e giudici. Anche se una cosa è chiara: si è agito contro la legge, che vieta l'eutanasia.
Torniamo a parlare della decisione dei giudici inglesi in merito al caso Alfie. Pare banale dirlo, ma dal punto di vista giurisprudenziale la morte di Alfie non è reato: come infatti un giudice potrebbe ordinare di commettere un illecito? Detto questo però, come abbiamo già avuto modo di evidenziare (clicca qui), l’ordinamento giuridico inglese non legittima l’eutanasia, bensì la considera reato.
Dunque i giudici hanno preso una decisione contra legem, forti però di un certo orientamento giurisprudenziale ormai consolidato e forti dell’applicazione diffusa nelle strutture ospedaliere del Liverpool Care Pathway for the Dying Patient, concepito in principio come strumento per l’assistenza dei pazienti terminali, ma diventato presto arma per uccidere chi non era in grado di raggiungere uno standard di vita accettabile (clicca qui). I medici e gli infermieri sono consapevoli che ormai l’orientamento giurisprudenziale è favorevole all’eutanasia e che le linee guida Liverpool Care Pathway for the Dying Patient sono tenute in considerazione anche nelle aule di tribunale e dunque, anche privi di ordinanza del giudice, interrompono alimentazione, idratazione e ventilazione assistita, nonché altri presidi vitali, certi che non finiranno davanti ad un giudice. Ed anche quando, come nel caso di Alfie, ci finiscono sanno che il diritto declamato nelle aule di giustizia è dalla loro parte.
Questo scarto tra ciò che dice la legge e pronunce dei giudici deve essere anche addebitato al fatto che il sistema giuridico inglese è basato sulla common law e non sulla civil law. Grazie a questa struttura dell’ordinamento giuridico inglese, i giudici hanno maggior spazio nell’interpretazione delle leggi, quasi arrivando ad una giurisprudenza creativa, e i precedenti giurisprudenziali possono orientare efficacemente i giudizi dei magistrati. Ciò detto rimane il paradosso.
Se invece volessimo dare un giudizio sull’operato dei magistrati prescindendo dai precedenti giurisprudenziali e della prassi medica, il giudizio non può che ricalcare quello espresso dal diritto codificato inglese: la morte di Alfie configura omicidio e omicidio con dolo. Infatti l’evento morte è stato voluto. In altri termini i giudici hanno ordinato il distacco del respiratore al fine di provocare la morte di Alfie. Ma poi abbiamo visto che Alfie non voleva saperne di morire, seppur non più assistito nella ventilazione.
Da qui l’interrogativo: i medici, secondo l’ordinanza del giudice, dovevano comunque adoperarsi con qualsiasi mezzo per provocare la morte del piccolo paziente oppure dovevano astenersi da altri interventi lesivi perché l’ordinanza riguardava solo il distacco del respiratore? Noi sappiamo che Alfie non è stato idratato e alimentato: in molti altri casi analoghi la morte di pazienti disabili nelle cliniche inglesi è avvenuta legittimamente con modalità identiche, quindi potremmo concludere che, forse, la decisione dei giudici, ordinando la morte di Alfie, doveva essere adempiuta in qualsiasi modo, così come è stato.
Su altro fronte, se invece l’operato dei medici doveva essere limitato al distacco del respiratore e la morte di Alfie è da addebitarsi anche ad altri fattori, come la mancanza di nutrizione e idratazione, l’illecito dei medici dovrebbe essere derubricato a mero illecito amministrativo perché non hanno attuato fedelmente il protocollo clinico, oppure ad omissione di atti d’ufficio. Di certo non sarebbero colpevoli di omicidio colposo perché, lo ripetiamo, la morte di Alfie era l’oggetto dell’ordinanza del giudice.
La difficoltà nell’emettere un corretto giudizio sulla responsabilità dei medici – che appare ormai e tristemente come un mero esercizio intellettuale – è data soprattutto dal fatto che le cause della morte di Alfie ad oggi non si conoscono con precisione e temiamo che mai potranno essere conosciute.