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EGITTO

Al-Sisi, il difensore dei cristiani che non t'aspetti

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Il presidente egiziano al-Sisi, che ha graziato Zaki, da noi è poco apprezzato a causa delle responsabilità che gli sono attribuite nel caso Regeni, ma in patria è una specie di eroe nazionale. Sua la volontà di difendere la minoranza copta e imporre all'islam una svolta moderata per la difesa della libertà di religione. 

Libertà religiosa 28_07_2023

Di Patrick Zaki, nome che in questi giorni è comparso su tutti i media, il grande pubblico sa solo che è uno studente egiziano dell’Università di Bologna, arrestato in Egitto per un articolo di protesta contro le violazioni dei diritti umani in Egitto. L’Italia c’entra solo perché quando è stato arrestato stava rientrando in Egitto da un periodo di studio a Bologna.

Di quali diritti umani si occupa Zaki? Il giornale di Bologna lo identifica come attivista per i diritti LGBTQ, e probabilmente ha ragione, visto che sulla pergamena conferitagli da Unibo c’è scritto “Letteratura comparata e post-coloniale”, ma la cornice dice che si tratta di un Master in Women’s Studies e Studi di genere. Però per quanto riguarda la condanna in Egitto, Zaki è stato indagato a partire da un articolo, scritto in arabo, in difesa dei diritti dei copti, la minoranza cristiana che costituisce il 10% della popolazione egiziana. Titolo del pezzo: “Migrazioni forzate, uccisioni e restrizioni: diario di una settimana dei copti d’Egitto”.

La cosa è curiosa perché il personaggio che gli ha concesso la grazia, il Presidente d’Egitto, Abdel Fattah al-Sisi, poco conosciuto e per niente apprezzato da noi, a causa delle responsabilità che gli si attribuiscono per il delitto Regeni, presso il suo popolo invece gode di una statura immensa, addirittura eroica. Già: eroica, proprio in relazione alla libertà di religione e alla difesa in specifico della minoranza copta, quella a perorare la cui causa Zaki dedica il suo articolo.

Gli egiziani che hanno acclamato e votato più volte in massa per al-Sisi lo considerano un eroe per aver fronteggiato in vari modi gli estremisti islamici, e soprattutto per il  coraggio con cui nel dicembre 2014 si fece promotore di una “rivoluzione religiosa” all’interno dell’Islam, rompendo il silenzio dei paesi arabi riguardo alle violenze perpetrate dai terroristi dello Stato Islamico (Isis). Erano gli anni in cui l’Isis imperversava, diffondendo video di truci decapitazioni frammiste a video di vittoriose colonne di Toyota bianche con mitra sporgenti proiettate verso il futuro.

Noto per essere un musulmano devoto, il ra’is scelse di rivolgere parole dirompenti, per certi versi paragonabili al discorso di pari intento pronunciato a Regensburg da Papa Benedetto XVI nel 2006,  direttamente alle guide religiose dell’Università di Al-Azhar, il vertice del sistema educativo dell’islam sunnita, rispettato anche al di fuori dell’Egitto.

Cosa disse al-Sisi? Che il mondo islamico non doveva più farsi percepire come «fonte di ansia, pericolo, morte e distruzione» dal resto dell’umanità. «Quell’insieme di testi e di idee che abbiamo sacralizzato nel corso dei secoli, al punto che discostarsene è divenuto quasi impossibile, sta antagonizzando il mondo intero» disse il ra’is, per cui le guide religiose dell’Islam, dovevano assumersi la responsabilità di favorire una «rivoluzione religiosa» per sradicare il fanatismo e rimpiazzarlo con una «visione più illuminata del mondo».

«Voi, imam – furono le parole del Presidente -  siete  responsabili davanti a Dio!».

Sulle colonne del Corriere della Sera, Sergio Romano descrisse questo discorso come uno spartiacque: «I leader delle nazioni arabe hanno un evidente interesse a contrastare le gesta dello Stato Islamico, ma hanno taciuto, forse per non irritare gli ambienti più confessionali delle loro società. al-Sisi ha avuto il merito di violare questo tabù e di farlo di fronte a una platea di imam e ulema in una istituzione accademica che è stata definita in passato, anche se con una formula molto approssimativa, il Vaticano dell’Islam. Sembra di capire che il presidente chieda ai custodi della fede di non considerare più le antiche scritture un testo immutabile, da leggere alla lettera, ma un testo storico da leggere con criteri moderni....».

Ma l’audacia dell’appello di al-Sisi emerge soprattutto dal confronto con l’iniziativa presa nello stesso luogo pochi anni prima dal Presidente americano Barack Obama. Recatosi senza clamore ad al-Azhar nel giugno 2009, pochi mesi dopo il suo insediamento, Obama aveva compiuto la missione praticamente opposta: quella di svegliare negli egiziani l’orgoglio di considerarsi popolo musulmano! Senza tenere in alcun conto gli effetti che un tale intervento avrebbe potuto avere sui rapporti della maggioranza musulmana con i copti,  Obama aveva perfino imposto la presenza in prima fila degli esponenti dei Fratelli Musulmani, da quarant’anni fuorilegge come organizzazione in Egitto, per esaltare davanti a loro, e in termini assoluti, la fede musulmana descritta da Obama come “rivelata”.

Logicamente i copti americani espressero grande disappunto per il gesto sconsiderato del loro presidente. «Nessun musulmano è punito se uccide dei cristiani - elencò il Dr. Monir Dawoud, presidente della American Coptic Association - le giovani cristiane vengono rapite e costrette a diventare musulmane, non ci sono posizioni di leadership per i cristiani a nessun livello di vita pubblica. Discriminati sul lavoro, a scuola, sui media, in Parlamento…». Accuse che collimano con il clima descritto nel succitato articolo di Patrick Zaki, il cui testo non rispecchia le violenze anticipate dal titolo, ma parla appunto di discriminazioni. 

Dunque nonostante tutto siamo allo stesso punto di quando parlò Obama? Non pare proprio. In questi 14 anni gli egiziani hanno dato vita a due rivoluzioni, due o tre elezioni, due Costituzioni, e il governo ha varato una marea di provvedimenti per dare attuazione pratica all’uguaglianza inscritta nella Costituzione approvata per referendum nel 2014.

Per quanto riguarda la minoranza copta, non si contano le iniziative per imporne il rispetto, a partire dalla settimana di lutto nazionale imposto al Paese a seguito della strage dei 21 cristiani - 20 copti e un ghanese - attuata dall’Isis in Libia e fatta conoscere al mondo con uno dei loro terrificanti video. Accompagnato dall’assegnazione di una pensione e da compensazioni in denaro alle famiglie delle vittime, il lutto in solidarietà con la minoranza cristiana, da sempre discriminata e trattata come cittadini di serie B, fu un gesto clamoroso. 

Ma è solo l’esempio più vistoso di altri ad attestare una volontà governativa di proteggere le minoranze e le loro chiese, documentata da organizzazioni cristiane e cattoliche, a partire da “Aiuto alla Chiesa che Soffre”.

Il perché questa volontà non sia valsa ad evitare la condanna a Patrick Zaki non è chiaro. C’entra forse con il fatto che il titolo dell’articolo risulta molto più cruento di quanto sia il testo reso disponibile in inglese?  Nell’attesa di chiarimenti, registriamo con sconcerto la risoluzione senza precedenti votata al Consiglio per i diritti umani dell’ONU che chiede all’Europa di fermare chi “offende il Corano”, votato da Paesi dove i cristiani devono stare attenti a come parlano per non finire impiccati o bruciati vivi.