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JIHAD

Al-Shabaab, se i rapitori di Silvia usano per base l’Italia

I due somali e i due etiopi per i quali la Procura di Bologna ha chiesto il processo finanziavano, secondo gli inquirenti, Al-Shabaab. Non è il primo caso di questo tipo in Italia. Del resto, la nostra intelligence, come emerge dall’ultimo report annuale, conosce bene la pericolosità del gruppo somalo. Che usa il nostro Paese come base, avvalendosi anche dell’immigrazione clandestina, per creare “adepti” nel resto d’Europa.

Attualità 18_06_2020

Quando la Procura di Bologna ha chiesto il processo per quattro stranieri, due somali e due etiopi, residenti stabilmente tra la Lombardia e il Piemonte, non ci si è preoccupati di scoperchiare il vaso di Pandora fino in fondo. Per l’accusa, gli immigrati residenti in Italia finanziavano il terrorismo jihadista internazionale raccogliendo e inviando denaro utile all’acquisto di armi ed esplosivi ai terroristi di Al-Shabaab, la cellula terroristica (derivazione africana di Al-Qaida) che ai più è diventata nota dopo la liberazione di Silvia Romano.

I quattro uomini indicati dalla Procura - Rashiid Dubad (23 anni), Said Mahamed (23), Cabdiqani Asman (30) e Isidiin Ahmed (23) - favorivano con una piccola rete anche gli ingressi clandestini dalla Somalia in Italia, facendo doppiamente il gioco delle varie organizzazioni terroristiche islamiche. Dall’inchiesta è emerso che gli immigrati si muovevano in diverse regioni del Nord Italia per raccogliere del denaro da inviare, poi, ai combattenti del Corno d’Africa per la causa della “guerra santa”. Al-Shabaab, in arabo “la gioventù”, ha l’obiettivo di rovesciare il governo di Mogadiscio, appoggiato dall’Onu, per prendere il potere e imporre la legge islamica. Motivo per cui la capitale somala è regolarmente colpita dai militanti del gruppo, quello che ha rapito Silvia Romano al solo scopo di ricavarne una cospicua somma di denaro da reinvestire nel terrorismo.

L’antiterrorismo è riuscito a individuare gli uomini attraverso alcune intercettazioni telefoniche e contatti nella zona di Forlì, dal settembre 2018. Uno dei quattro in particolare è stato a lungo “il collettore di beni (camion) e denaro” che provvedeva “con cadenza mensile” a far recapitare ai terroristi islamici. Un altro dei quattro dietro le sbarre aveva scelto l’Italia solo come base del suo traffico, mentre, godendo dello status di rifugiato in Francia, percepiva denaro dal welfare francese, denaro che riversava nelle casse dei terroristi somali. Il trasferimento di denaro avveniva attraverso la hawala, che non è altro che il sistema di riciclaggio contemplato da sempre dalla legge islamica, e che si avvale sostanzialmente di una rete di mediatori impossibile da tracciare.

Queste indagini e i relativi arresti non costituiscono una novità per l’Italia, che gioca il ruolo di ponte più o meno inconsapevole con tutto il mondo del terrorismo islamico. Nel 2018, il gip del Tribunale di Bari convalidava l’arresto di un ventenne somalo fermato nel capoluogo pugliese con le accuse di associazione con finalità di terrorismo, istigazione e apologia del terrorismo, aggravate dall’utilizzo del mezzo informatico e telematico. Il giovane venne ritenuto un affiliato dell’Isis in Somalia e in contatto con una sua cellula operativa, i terroristi di Al-Shabaab. L’extracomunitario, in possesso di materiale riconducibile alla tipica ideologia jihadista, stava organizzando attentati nelle chiese in prossimità del Natale. “Mettiamo bombe a tutte le chiese d’Italia. La chiesa più grande dove sta? Sta a Roma?”, fu una delle frasi inquietanti intercettate. E venne scoperto che svolgeva anche una serrata opera di indottrinamento con relative istruzioni teorico-operative sul concetto di jihad armato.

Ma per Al-Shabaab gli attentati nel cuore della cristianità - come quello progettato dal suddetto somalo, Mohsin Ibrahim Omar, conosciuto come Anas Khalil, in questi giorni condannato a 8 anni di galera - sono un di più. Gli uomini affiliati alla cellula terroristica in Somalia, e spediti in Italia, devono soprattutto intessere relazioni per raccogliere denaro in sostegno alla causa islamista. Il sistema hawala, così, va ad aggiungersi agli altri strumenti utili all’organizzazione jihadista somala per accreditare il suo potere: dalla pirateria alle estorsioni, dai sequestri di persona (vedi appunto Silvia Romano) fino all’importazione illegale di auto rubate da rivendere in Somalia.

Niente di totalmente estraneo ai nostri 007, che ogni anno presentano in Parlamento una relazione pubblica che illustra quanto nell’anno precedente è stato oggetto della loro attenzione. E leggendo il documento relativo alle attività del 2019 si evince che Al-Shabaab sia un gruppo ben noto all’intelligence italiana. Nel segnalare le principali dinamiche globali che destabilizzano la sicurezza nazionale, ovvero le minacce alla sicurezza economica, il terrorismo jihadista, l’immigrazione clandestina, l’eversione e l’estremismo ideologico, l’intelligence ha guardato in primo luogo alla Somalia, realtà centrale rispetto agli sviluppi dell’intera regione africana, segnata da contrapposizioni clanico-tribali, da una marcata rivalità tra autorità centrale e Stati regionali e, soprattutto, da una grave, persistente minaccia terroristica che ha trovato nell’Italia l’anello perfetto per irrobustire il potenziale economico.

Punto di forza di Al-Shabaab è stata la capacità di recuperare - come emerge anche dalla relazione dei nostri 007 - la “tradizione” delle corti islamiche che rappresentano il primo veicolo per l’innesto nel Paese di narrative e pratiche dell’islamismo. Il gruppo terroristico è diventato poi un’entità “para-statale” capace di fornire servizi essenziali nelle aree rurali e assicurandosi così il sostegno della popolazione, nonché un bacino di reclutamento.

Non dimentichiamo che a maggio il governatore della regione Mudug, nello stato del Puntland, è stato ucciso, insieme alle sue guardie del corpo, in un attentato suicida rivendicato da Al-Shabaab, che ha così commentato: “Il governatore dell’amministrazione apostata nella regione di Mudug è stato ucciso oggi in un’operazione di martirio a Galkayo”. I terroristi somali hanno aspirazioni globaliste che fanno del Kenya il principale obiettivo oltre confine: attraverso i consolidati rapporti con le reti criminali locali (vedi sempre il caso di Silvia Romano), che nel gennaio 2019 hanno contribuito al cruento attentato al Dusit D2 Hotel, a Nairobi, Al-Shabaab ha ascritto tale operazione alle direttive impartite da al-Zawahiri (successore di Osama bin Laden) per rispondere alla “giudeizzazione della Palestina”.

Secondo le Nazioni Unite, nel 2011 le entrate annuali di Al-Shabaab sono state pari a 70-100 milioni di dollari, provenienti da dazi e tasse riscossi presso aeroporti e porti marittimi, tasse sulle merci e servizi, contributi del jihad e varie forme di estorsione giustificate in termini di obblighi religiosi, o zakat (pilastro dell’islam, che vuole la purificazione della propria ricchezza), spesso tradotta come elemosina, ma che non ha alcun elemento di volontarietà.

Queste entrate possono essere suddivise in quattro grandi categorie: fiscalità ed estorsione; commercio e contrabbando; supporto della diaspora e assistenza esterna. Per queste ultime due categorie, l’Italia è ritenuta un posto privilegiato dalla cellula terroristica, sebbene rappresenti solo una base - perché è il territorio meno controllato e da cui più difficilmente i clandestini vengono espulsi - che lega “adepti” in giro per l’Europa.

Al-Shabaab è, inoltre, il gruppo terroristico islamico che più si serve dei social network per attirare combattenti stranieri in Somalia, per soddisfare il loro desiderio di condurre il jihad, ma anche per creare una consapevolezza più importante nella lotta e nelle “buone opere” del gruppo somalo. La raccolta fondi passa attraverso i social, così come il collocamento dei centri della diaspora: come nel sobborgo di Rinkeby, a Stoccolma, che facilita il passaggio di potenziali reclute fornendo i fondi per i biglietti aerei.

Al-Shabaab dispone di simpatizzanti e cellule in tutta Europa. E tanti suoi sostenitori sono entrati in Italia in più occasioni infiltrandosi tra gli immigrati arrivati via mare, proprio come il già citato Mohsin Ibrahim Omar.