Al Brasile si è rotta la palla
Milioni di persone in piazza, due morti, Confederations Cup a rischio. L'aumento del prezzo del biglietto dei bus in Brasile è solo il pretesto della rivolta: il governo accusato di spese folli per i prossimi Mondiali di calcio mentre ospedali e scuole sono da Terzo mondo. Il rischio è una nuova Grecia.
Tutto questo macello per 20 centesimi di aumento? In Brasile, per il quarto giorno, le principali città sono state invase da masse immense di manifestanti. Un milione di persone in piazza. Due morti. Scene da guerriglia metropolitana. Mai si ricordano situazioni analoghe nella storia contemporanea del Paese lusofono dell’America del Sud.
E il tutto per 20 centesimi di aumento? Perché è questa la causa, dichiarata, della protesta: l’incremento delle tariffe dei trasporti pubblici, dall’equivalente di 1 euro a 1,20 euro. A Milano e a Roma, verrebbe da pensare, le hanno aumentate da 1 a 1,50. Fatte le debite proporzioni, avremmo dovuto assistere allo scoppio di una guerra civile. Ma non è successo nulla, neppure una protesta individuale, al massimo qualche brutto commento nei forum dei giornali online. In Brasile in realtà i mezzi pubblici hanno un impatto maggiore rispetto al potere di acquisto locale. Un lavoratore che percepisce un salario medio, deve spendere circa un quinto del suo stipendio mensile se, per andare al posto di lavoro, si avvale del trasporto pubblico. Un ulteriore aumento ha provocato un’indignazione molto forte, considerando che i mezzi sono ancora molto vecchi e malandati, da terzo mondo, non all’altezza di una potenza economica emergente. In ogni caso, un milione di persone in piazza, è una risposta palesemente sproporzionata all’offesa.
Se ancora crediamo che siano quei 20 centesimi in più, per comprare un biglietto, ad aver scatenato questa bufera, le ultime 24 ore ci hanno smentito: il governo ha annunciato il congelamento della tariffa, ma la protesta si è ulteriormente gonfiata, a San Paolo, a Rio e a Belo Horizonte. E’ dunque evidente che quello del biglietto fosse solo un pretesto. Per protestare per qualcosa di più grave. I cartelli più diffusi fra i dimostranti se la prendono con l’organizzazione dei Mondiali di Calcio (2014) che ha consumato 7 miliardi di real (pari a 2 miliardi e mezzo di euro) di denaro pubblico, lasciando sanità e istruzione al livello di un Paese del terzo mondo.
Chiunque se lo possa permettere, non ci pensa nemmeno a mandare i suoi figli alla scuola pubblica, dove incontrerebbero la violenza dei compagni e l’impreparazione dei professori. Lo stesso, stando ai manifestanti, vale per gli ospedali. Veder bruciare così tante risorse pubbliche in una manifestazione di gigantismo sportivo, con tutto l’amore che i brasiliani possono nutrire per il calcio, ha fatto saltare i nervi a milioni di persone. Dover pagare una tariffa pubblica superiore, per un servizio già caro e scadente, nel nome del calcio, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La politica monetaria espansiva (che molti invocano per l’euro …) ha contribuito a creare una forte inflazione. I brasiliani hanno perso potere d’acquisto proprio mentre aumentavano le tariffe pubbliche.
Ma anche questa serie sfortunata di politiche e circostanze economiche non basta a spiegare tanta indignazione. C’è qualcosa di più profondo. La popolazione brasiliana ha conquistato un benessere relativo solo di recente. E’ solo nell’ultimo decennio di governi socialisti che buona parte dei poveri ha potuto raggiungere un livello di vita da “classe media”. Undici anni fa, l’allora presidente Lula, appena eletto, aveva lanciato una serie di slogan populisti sulla redistribuzione della ricchezza. Non a caso era anche sostenuto dal movimento di estrema sinistra dei Sin Tierra, che chiede il sequestro e la redistribuzione delle terre, anche senza risarcimenti ai proprietari. Lula, tuttavia, una volta arrivato al potere ha seguito una politica molto più moderata rispetto ai suoi slogan, dimostrando di saper preservare un minimo di economia di mercato.
Solo per questo motivo, contrariamente ai populisti veri e coerenti (come Hugo Chavez in Venezuela ed Evo Morales in Bolivia), ha lasciato che il suo Paese, già in piena crescita, sfruttasse le sue immense risorse umane e naturali, continuando a svilupparsi fino a diventare una potenza economica. La retorica socialista è però continuata come prima e più di prima. E nella mente dei brasiliani si è fissata l’idea (errata) che fosse lo Stato a renderli ricchi e benestanti. Con queste proteste non fanno altro che chiedere allo Stato, presieduto da Dilma Rousseff (erede di Lula), di renderli ancora più ricchi e benestanti. L’inflazione, la creazione di grandi stadi a scapito di ospedali e scuole migliori è percepita come una grave offesa dello Stato contro il popolo. Ed è contro di essa che la gente scende in piazza.
Una manifestazione sportiva mondiale, in sé, potrebbe essere una buona opportunità per qualunque Paese. Attira visibilità, sponsor, investimenti, visitatori da tutta la Terra. In un’economia statalista, però, è una disgrazia. In Grecia, per esempio, la costruzione delle opere faraoniche per le Olimpiadi del 2004, è giunta come il colpo di grazia per un’economia resa fragile da una spesa pubblica insostenibile. Ora quelle grandi opere, quegli stadi, quelle piscine, in rovina in mezzo alle macerie del Paese in crisi, sono solo cattedrali nel deserto, simbolo di un benessere illusorio che non ci si poteva permettere.
In Brasile la crescita economica impetuosa degli ultimi governi socialisti rischia di avere un brutto risveglio. Le sue fondamenta sono molto fragili, mancando un quadro di legalità solido a protezione della proprietà privata, che è la base di ogni sana economia di mercato. C’è poca libertà nel lavoro, ancora meno nel fare impresa, la spesa pubblica è esorbitante, assorbendo più di un terzo del Pil. Le premesse di una nuova Grecia, dopo i Mondiali 2014 e le Olimpiadi 2016, potrebbero esserci tutte. Forse i brasiliani se ne stanno accorgendo e si stanno svegliando appena in tempo.