Africa. Per una road map che non fallisca
L'ONG Aiuto alla Chiesa che Soffre ha organizzato un incontro con padre Aurelio Gazzera per sollecitare aiuti dall'Unione Europea, per porre fine al conflitto nella Repubblica Centrafricana. Il problema, però, è il solito: lo Stato africano che manca.
Nei giorni scorsi l’ONG Aiuto alla Chiesa che Soffre ha organizzato un incontro tra padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano nella Repubblica Centrafricana, e alcuni diplomatici europei accreditati presso la Santa Sede.
Come in altre occasioni precedenti, l’obiettivo era ottenere dall’Unione Europea aiuti per mettere fine al conflitto che oppone da oltre un anno islamici e cristiani nella Repubblica Centrafricana: tanto cruento da aver indotto a dicembre Stati Uniti e Nazioni Unite a definire di “pregenocidio” la situazione creatasi. L’ultima strage risale al 28 maggio. Dei miliziani islamici hanno attaccato la chiesa di Fatima nella capitale Bangui dove dei cristiani si erano rifugiati mentre nel quartiere in cui sorge l’edificio era in corso uno scontro tra combattenti Seleka, islamici, e anti-Balaka, cristiani. Si contano da 11 a 30 morti e decine di feriti. I sopravvissuti dicono che, se gli anti-Balaka non fossero accorsi in loro difesa, il bilancio delle vittime sarebbe stato più elevato perché i militari non si sono mossi in aiuto dei cristiani minacciati. Dicono anche che gli anti-Balaka dopo l’attacco alla chiesa hanno eretto dei posti di blocco attorno a Bangui.
Le truppe dell’operazione Sangaris inviate dalla Francia e quelle della Misca, la missione dell’Unione Africana – in tutto 7.200 militari – non riescono a impedire le stragi e anzi vengono accusate di schierarsi con i Seleka o con gli Anti-Balaka, a seconda della loro nazionalità e religione. I caschi blu promessi dalle Nazioni Unite non arriveranno prima di settembre.
“L’Unione Europea ha l’obbligo e la possibilità di fare un ottimo lavoro” perché è una comunità fondata su ottimi principi” ha spiegato padre Gazzera. Ma per impegnarsi con dei risultati deve porre delle condizioni precise a chi governa nel paese: “passi concreti per aiutare la popolazione, perché al momento lo stato è totalmente assente”. Non solo lo è adesso, in questo momento di crisi, ma da sempre: “un’ulteriore prova dell’inefficienza governativa – ha ricordato il missionario – è il fatto che dall’indipendenza nel 1960 a oggi non una singola scuola è stata costruita dallo stato. Tutti gli istituti sono stati realizzati grazie a donazioni”.
Il problema sollevato da padre Gazzera è ben noto. Il migliore dei piani di pace, la road map più rigorosa, costata anni di negoziati, e tutte le risorse finanziarie, militari e tecnologiche del mondo falliscono quando manca la volontà di chi guida un paese di porre fine a un conflitto civile o di potere, combattere il terrorismo, garantire buon governo, lottare contro la corruzione, opporsi al tribalismo. Come intervenire, quali mezzi impiegare, trattandosi di stati sovrani, tanto più se dotati di istituzioni politiche democratiche e guidati da leader vincitori di elezioni svoltesi sotto gli occhi di osservatori internazionali che ne hanno certificato correttezza e validità? Spesso non resta altro che provvedere aiuti umanitari per le popolazioni in difficoltà, se almeno questo è possibile.
In Mali, Minusma, una missione ONU di stabilizzazione forte di oltre 8.000 unità (12.600 a pieno regime), una serrata attività diplomatica internazionale di mediazione, l’apertura di nuove linee di credito da parte del Fondo monetario internazionale e di altri donors internazionali sostengono il paese nell’opera di pacificazione e ricostruzione. Il Mali è uscito infatti prostrato dalla lunga crisi iniziata nel marzo del 2012 quando il movimento secessionista tuareg Mnla e alcuni gruppi jihadisti hanno conquistato la vasta regione settentrionale chiamata Azawad imponendovi la legge coranica. I movimenti antigovernativi sono stati sconfitti grazie all’intervento di una forza internazionale nel gennaio del 2013, ma non del tutto. Il 17 maggio scorso l’Mnla e due gruppi jihadisti, Aqmi e Mujao, hanno sferrato una offensiva riuscendo a impadronirsi nuovamente di uno dei capoluoghi dell’Azawad, Kidal, e di alcune altre città. Tre giorni prima, il 14 maggio, l’Fmi aveva sospeso il pagamento al Mali di 4 milioni di euro, previsto per giugno, dopo la scoperta che il governo maliano ha acquistato un nuovo aereo presidenziale con “modalità controverse” e per un “ammontare discutibile”. Inoltre Fmi e gli altri donors attendono spiegazioni in merito a un ordine di armi da parte del ministero della difesa.
In Sud Sudan è in corso dal dicembre del 2013 un conflitto armato tra le due principali etnie, i Dinka e i Nuer, per il controllo delle istituzioni politiche, ulteriormente degenerato negli ultimi mesi in scontri tra comunità tanto estesi e violenti da evocare l’espressione “pulizia etnica”. Il paese, indipendente dal Sudan dal 2011 dopo decenni di guerra civile, dispone di immensi giacimenti di petrolio, ma a causa della guerra le attività estrattive, che garantiscono al governo circa il 98% dei suoi introiti, si sono più che dimezzate. I Dinka sono accusati di aver progressivamente accentrato nelle loro mani il potere politico provocando infine la reazione dei Nuer e di altre etnie. Tutte le componenti del governo indistintamente devono rispondere di una diffusa corruzione. In altre parole, tribalismo e malgoverno hanno minato le potenzialità di un paese nato sotto ottimi auspici. Oggi 7 milioni di sudanesi su una popolazione di 11 milioni rischiano la fame. Gli sfollati sono un milione, i profughi quasi 350.000 e si teme salgano a oltre 800.000 entro la fine dell’anno. Le vittime del conflitto sono ormai più di 10.000.
Una conferenza internazionale dei donatori tenutasi a Oslo, in Norvegia, il 20 maggio ha raccolto per il Sud Sudan aiuti per 600 milioni di dollari che si aggiungono ai 536 già stanziati. Le Nazioni Unite intendono raggiungere la cifra di 1,8 miliardi di dollari.
Per finire la Somalia, ma altri casi ancora si potrebbero citare. In Somalia opera dal 2007 una missione dell’Unione Africana ma finanziata dalla comunità internazionale, la Amisom, a cui si deve in gran parte la creazione di enclave relativamente sicure (ma gli attentati terroristici continuano, incessanti) e la significativa riduzione dei territori controllati dal principale movimento antigovernativo, il gruppo jihadista al Shabaab. Lo scorso settembre, a Bruxelles, un summit internazionale al quale hanno partecipato 50 paesi ha concordato di fornire al governo somalo 1,8 miliardi di euro (650 offerti dall’Unione Europea) in aggiunta al miliardo e 120 milioni già dati al paese tra il 2008 e il 2013 (senza contare i contributi finanziari forniti in precedenza). Il denaro dovrebbe servire a realizzare un New Deal, la ricostruzione del paese devastato da oltre 20 anni di guerra tra clan. Ma i clan continuano a contendersi cariche politiche e amministrative provocando una crisi istituzionale dopo l’altra pur di conquistare un posto in più in parlamento, un altro incarico ministeriale. Una nuova crisi rischia di aprirsi in questi giorni. Il 7 maggio 130 parlamentari su 275 hanno infatti chiesto le dimissioni del presidente Hassan Sheikh Mohamud. Quel che è peggio, la corruzione in Somalia fa sistematicamente sparire due terzi del denaro che entra nelle casse statali: 7 dollari ogni 10, ha calcolato la Banca Mondiale.