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GENDER

Africa, contro l'omosessualità per amore della vita

Le leggi che prevedono pene detentive per i gay in Nigeria e Uganda e prossimamente anche in Etiopia, riflettono una cultura tradizionale della famiglia. L'Occidente, che ha perdonato tutto al continente nero, ora reagisce duramente.

Esteri 26_03_2014
Militante gay in Uganda

39 paesi africani su 54 sanzionano l’omosessualità con pene detentive, alcuni anche con la condanna a morte, e tutti, salvo il Sudafrica, proibiscono i matrimoni omosessuali. L’Etiopia è in procinto di adottare un disegno di legge contro l’omosessualità, già adesso punibile con pene fino a 15 anni di carcere e che con la nuova normativa sarà inclusa nella lista dei reati non passabili di amnistia. Altri stati tra cui il Camerun e il Tanzania intendono varare leggi in materia. La Nigeria lo ha appena fatto adottando norme molto severe. Il mese scorso in Uganda le leggi in vigore sono state inasprite. Tutto questo per soddisfare, una volta tanto, le richieste, i bisogni e la volontà popolari: perché gli Africani disapprovano i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso e non vogliono assolutamente sentir parlare di matrimoni gay. Lo ha confermato l’indagine svolta dal Pew Research Centre nel 2013, dal titolo La linea di demarcazione mondiale sull’omosessualità. Maggiore il consenso nelle società più secolari e ricche. Gli stati africani considerati presentano tutti tassi di rifiuto dell’omosessualità da parte della popolazione superiori al 90%, ad eccezione del Sudafrica (61%). In particolare, rifiutano l’omosessualità e ritengono che non debba essere accettata dalla società il 98% dei nigeriani e il 96% degli ugandesi (alla pari con gli abitanti del Ghana e del Senegal).

Alla notizia delle leggi adottate in Nigeria e Uganda indignazione e scandalo sono stati tali da spazzare via di punto in bianco gli imperativi del relativismo culturale: eppure così radicati e perentori da indurre per decenni innumerevoli studiosi, accademici, politici, missionari a giustificare a oltranza le tradizioni tribali più lesive dei diritti umani ed eventualmente a minimizzarne la violenza. Quante volte è stata pronunciata la frase “che diritto abbiamo noi di giudicare istituzioni diverse dalle nostre?”: persino a proposito dei matrimoni imposti, del prezzo della sposa e addirittura, fino a non molto tempo fa, delle mutilazioni genitali femminili, ora per fortuna condannate senza però che stati e organismi internazionali abbiano mai reagito come stanno facendo nel caso dell’omofobia.

Stati Uniti, Francia, Danimarca, Svezia e Olanda sono stati i primi governi a parlare di tagli e sospensioni degli aiuti finanziari all’Uganda, due giorni dopo l’approvazione, il 24 febbraio, della nuova legge sull’omosessualità. Il 27 febbraio la Banca Mondiale annunciava a sua volta la sospensione di un prestito di 90 milioni di dollari destinato al sistema sanitario ugandese. Il 13 marzo il parlamento europeo ha votato la richiesta di sanzioni economiche e di interruzione della cooperazione con Nigeria, Uganda e con ogni altro stato africano che rifiuti di aderire all’agenda europea contro l’omofobia. Si ipotizzano anche ritorsioni per le multinazionali che operano negli stati in questione.

Sul diritto di ogni paese a disporre come meglio crede del proprio denaro non si discute. Anzi, fin dall’inizio i fondi destinati alla cooperazione internazionale allo sviluppo avrebbero dovuto essere assegnati ponendo delle condizioni e verificandone il rispetto. Invece, ad esempio, tuttora si continua a finanziare il governo somalo pur sapendo che i suoi leader politici fanno sparire più di due terzi del denaro ricevuto e che il 98% delle bambine somale vengono sottoposte a mutilazioni genitali.

In effetti, è forse la prima volta che i paesi occidentali prendono un’iniziativa forte e all’unisono in difesa di una specifica categoria di persone: e gli africani rispondono proclamando il diritto a conservare e tutelare i loro valori. La Conferenza episcopale nigeriana si è schierata con la popolazione: «i rapporti omosessuali contraddicono tutto ciò che noi difendiamo…in Africa rispettiamo la dignità del matrimonio tra uomo e donna…questi sono stati sempre i nostri valori e non dobbiamo cedere a quelli dell’Occidente». Il presidente dell’Uganda Yoweri Museveni ha detto di voler dimostrare, firmando la legge, «l’indipendenza dell’Uganda rispetto alle pressioni e alle provocazioni occidentali».

Apprestandosi a prendere provvedimenti dalle gravi conseguenze economiche e sociali (il 20% del bilancio dell’Uganda dipende dai donatori occidentali, la moneta ugandese è crollata sui mercati valutari non appena sono stati annunciati i primi tagli agli aiuti), sapere che cosa difendono gli Africani condannando l’omosessualità è il minimo.

Quello che ai loro occhi l’omosessualità nega e minaccia è soprattutto ed essenzialmente un valore per secoli ritenuto fondante, irrinunciabile, all’origine di istituzioni inviolabili: il lignaggio, vale a dire la comunità famigliare tradizionale all’interno della quale si custodisce e si rinnova la vita, composto dai discendenti – vivi, morti e non ancora nati – da un comune antenato fondatore.

Per assicurarne la sopravvivenza e la perpetuazione, bisognava fare il possibile perché nessuna delle sue linee di discendenza si interrompesse. A tal fine, dovere, diritto, e aspirazione, di tutti gli uomini, salvo pochi destinati a ruoli sociali speciali, era formare una famiglia, procreare e farlo seguendo regole che garantissero l’appartenenza dei nuovi nati alla propria linea di discendenza. Sottrarsi a questo dovere, mettendo in pericolo l’esistenza del lignaggio, era inimmaginabile: un tradimento che non poteva essere accettato né perdonato.

Tanto era importante che nessuna linea si interrompesse che gli africani hanno adottato delle istituzioni per rimediare alla morte di un uomo senza eredi. Una è il levirato. La vedova in questo caso doveva sposare un fratello o un cugino parallelo del marito morto. Il primo bambino nato dall’unione era considerato figlio del defunto e ne continuava quindi la discendenza. Certe etnie, ad esempio i Nuer e gli Igbo, avevano invece istituito una forma di matrimonio in cui la vedova assumeva lo status del marito deceduto. Questo le consentiva di sposare una donna il cui compito era avere rapporti sessuali per generare bambini da inserire nella linea di discendenza del defunto.

Pur in contesti mutati, il dovere sociale di procreare resta vivo oggi in Africa e con esso il desiderio di diventare genitori. Forse non più tutti considerano la sterilità la peggiore delle disgrazie per una donna e i malefici per procurarla e l’aborto colpe gravi che gli antenati fondatori non mancano di punire, ma per gli africani ciò che impedisce volontariamente la procreazione resta inaccettabile ed è incomprensibile, estraneo chi rifiuta di diventare genitore.