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DAI SOVIETICI ALLA GUERRA PERMANENTE

Afghanistan, a 40 anni dall'invasione la pace manca

Sono passati esattamente 40 anni dal 24 dicembre 1979, giorno in cui l’esercito sovietico oltrepassò il confine dell’Afghanistan per “portare aiuto” al governo amico, filo comunista, di Noor Mohammed Taraki. La guerra che iniziò allora fece esplodere una realtà sociale tanto frammentata quanto fragile. La pace non è tornata tuttora.

Cultura 24_12_2019
Afghanistan, forze speciali sovietiche del KGB

Sono passati esattamente 40 anni dal 24 dicembre 1979, giorno in cui l’esercito sovietico oltrepassò il confine dell’Afghanistan per “portare aiuto” al governo amico, filo comunista, di Noor Mohammed Taraki che, come segretario del Partito Democratico, aveva compiuto un colpo di Stato l’anno precedente e instaurata la Repubblica Democratica dell’Afghanistan.

Già nel 1973 il Primo Ministro Mohamed Daoud, approfittando di una visita diplomatica del re Zahir Shah in Italia, aveva abolito la monarchia, proclamato la Repubblica e emanata una nuova Costituzione nel 1977. Il suo potere è fragile perché ha contro una forte opposizione islamica guidata – dal Pakistan – da tre dirigenti: il centrista Burhanuddin Rabbani, il moderato Ahmad Shah Massud e il fondamentalista Gulbuddin Hikmatyar. Per controllare la situazione Daoud cerca di governare venendo a patti con la fazione comunista Parchan di Babrak Karmal e nel ’77 si reca a Mosca per incontrare Breznev e ottenere un aiuto per pacificare il Partito Democratico,  ma l’anno successivo viene barbaramente trucidato per ordine di Taraki che prende il suo posto a capo della Repubblica.

Il nuovo governo lancia subito una serie di riforme tra cui la riforma agraria, l’abolizione del velo, il divieto per gli uomini di portare la barba, l’abolizione dei tribunali tribali, la costruzione di ospedali e scuole, la nascita di sindacati, il diritto di voto alle donne, l’abolizione delle leggi tradizionali sostituite da altre di chiara ispirazione marxista. A lui si contrappone il mondo religioso che accusa il nuovo governo di essere traditore della patria e ateo, e proclama il jihad. Molti scendono in campo. L’URSS, che aveva già appoggiato il Governo con aiuti tecnici e finanziari per la costruzione di strade, scuole e caserme, manda aiuti per addestrare e armare l’esercito.

L’aiuto esterno non basta e nel 1979 i Sovietici invadono l’Afghanistan, eliminano il presidente del Khalq, Hafizullah Amin, e mettono al suo posto Karmal. Nei successivi dieci anni, al prezzo di un milione e mezzo di morti, la composita alleanza mujaheddin – che comprende tutto l’islam politico e le minoranze etniche –, con l’aiuto del Pakistan e degli Stati Uniti, scaccia i sovietici dal paese, e nel 1992 abbatte il regime comunista di Najibullah succeduto a Karmal nel 1986. Il primo presidente mujaheddin dell’Afghanistan è il moderato sufi Sibghatullah Mujaddedi, cui fa seguito nel 1993 il centrista Rabbani, con un governo a forte presenza tagika e con il tagiko Massud capo dell’esercito.

L’indipendenza dell’Afghanistan dall’Urss è raggiunta nel 1989, esattamente 70 anni dopo la prima ottenuta nel 1919 dagli Inglesi con il Trattato di Rawalpindi. Ma il 1989 è anche l’anno del crollo del muro di Berlino, simbolo dell’implosione del regime social-comunista, ed è l’inizio di un nuovo mondo, senza più contrapposizioni fra Est e Ovest, senza “buoni e cattivi” ma in cui tutto diventa più complicato anche per l’entrata in scena dell’islam radicale e jihadista che ancora tanto odio, tanta incertezza, tanto dolore provoca in molti paesi. Aver sconfitto l’URSS non vuol dire pace, libertà e democrazia per il popolo afghano. Sono passati 10 anni di guerra civile e, come in tutte le guerre civili, i rancori, le divisioni ideologiche, le ambizioni di potere hanno causato lacerazioni inimmaginabili. Le minoranze etniche diverse dalla tagika sono tutte in rivolta, e l’area pashtun è spezzettata in piccole zone ciascuna di fatto governata da un «signore della guerra» spesso legato alla malavita.

L’Afghanistan è una “terra di mezzo” - per dirla con Tolkien - che unisce l’Asia orientale con l’Asia centrale e con l’Asia meridionale rappresentando, dall’antichità ad oggi, un crocevia di popolazioni, merci, lingue e vie di comunicazione. Lo storico inglese Arnold Toynbee l’ha definito  un "carosello del mondo antico" perché oggetto di continue invasioni straniere, ribellioni, nascita di potentati locali e nuove invasioni fino ad essere tra il XIX e XX Secolo il centro del Grande Gioco fra russi e inglesi per il controllo dell’area persiana e del sub continente indiano.

Da una storia molto complessa è nata una realtà sociale molto variegata che è all’origine di uno dei maggiori problemi attuali: la compresenza di diverse etnie (la Costituzione del 2004 ne riconosce 14: Pashtun, Tajik, Hazara, Uzbek, Baloch, Turkmen, Nuristani, Pamiri, Arab, Gujar, Brahui, Qizilbash, Aimaq, and Pashai) ognuna con il suo bagaglio di lingue, tradizioni, costumi e talora anche appartenenza religiosa. Nel Paese la lingua ufficiale è il dari (o persiano afghano) usato dal 77% degli abitanti, accompagnato da pashtu (48%), uzbeko (11%) e, a calare, inglese, turkmeno, urdu, pashayi, nuristan, arabo e beluci.

La lunga lotta con l’occupazione sovietica ha esaltato la già grave frammentarietà del popolo ed ha causato altri problemi in ambito islamico. Il socialismo sovietico, a cui molti governi mediorientali e maghrebini negli anni ’60-‘70, avevano guardato come interlocutore e protettore internazionale contro l’Occidente, si è tradito, ha violato il suolo islamico con le armi. L’occupazione sovietica ha rotto l’incantesimo, i governi filo socialisti cambiano interlocutore rivolgendo le proprie aspettative all’interno dello stesso mondo arabo e cercando di ricostruire un’identità, anche politica, islamicamente corretta: più sharī‘a meno modernità. Il ritorno all’islam “puro”, come abbiamo visto, tocca anche questo popolo ma non basta. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle e la successiva guerra degli Usa, che accusano l’Afghanistan di nascondere i capi del movimenti terroristico jihadista al-Qaeda, il Paese si trova in gravissime difficoltà. Tra le tante si può citare la divisione fra sunniti e sciiti che non era mai stata un problema, ma lo è diventata negli ultimi tempi con il radicalizzarsi delle posizioni religiose di alcuni gruppi jihadisti e rischia peggiorare visto il tentativo da parte dell’Iran di chiamare a raccolta tutti gli sciiti in un’ideale contrapposizione al mondo sunnita solidale con l’Arabia Saudita e, per suo tramite, con gli Stati Uniti.

Inoltre è un problema per l’Afghanistan la mancanza di lavoro con una crescita demografica che vede il 62% della popolazione  sotto  i  24 anni e solo il 2,7 % sopra i 61 anni (in Italia sono il 22%). E’ un problema la mancanza di ordine e sicurezza sociale causa bande armate che spadroneggiano incontrastate in ampie fasce del territorio. E’ un problema la mancanza di istruzione che vede l’analfabetismo risalire ai livelli della prima metà del XX Secolo. E’ un problema la corruzione che genera crisi economica perché, come scrive il colonnello Farad Bithani, oggi esule in Italia, l’Afghanistan è  “povero non per mancanza di risorse o per la guerra ma perché preda di una fitta rete di corrotti, violenti, approfittatori”.

Ma non tutto è buio. Come mette in evidenza Padre Giovanni Ricci nel libro testimonianza Parroci a Kabul, l’Afghanistan è un Paese molto ricco di materie prime ma soprattutto ricco di fantasia e di speranza perché ricco di giovani. Il Paese può risorgere, speriamo che il desiderio viva nei cuore degli afghani.