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IL SIGNORE DEGLI ANELLI

Affrontare il viaggio affidandosi a Dio

Chi realmente ha compreso JRR Tolkien è Papa Francesco. L'allora primate di Argentina, nel 2008, identifica nei protagonisti del Signore degli Anelli l'uomo che, camminando, conoscerà e vivrà il dramma della scelta tra bene e male.

Cultura 03_09_2013
compagnia

Quarant’anni fa, il 2 settembre 1973, J.R.R. Tolkien concludeva il proprio pellegrinaggio terreno. Per più di una ragione, tutta la sua opera letteraria, e addirittura la sua produzione scientifica, può essere considerata il racconto, o se si vuole la metafora, di un viaggio portentoso. Di Tolkien sono figure del “pellegrinaggio” le narrazioni fantastiche (e le importanti scoperte filologiche, a coronamento di elaborati percorsi di ricerca e indagine), le ambientazioni (mai definitivamente compiute), i personaggi che maturano man mano che il lettore ne approfondisce le identità (e però mai relativisticamente “in divenire”) e soprattutto la “Storia” di quel mondo che "subcreò" (fu il Tolkien filologo-narratore a coniare questo neologismo tanto denso e ricco) a immagine e somiglianza dell’unica vera creazione.

Chi lo ha compreso raffinatamente è Papa Francesco. Nell’omelia della Pasqua del 2008, l’allora arcivescovo di Buenos Aires (nonché primate di Argentina e presidente della Conferenza Episcopale Argentina) descrisse infatti acutamente gli hobbit protagonisti de Il Signore degli Anelli, cioè Bilbo Baggins e suo nipote Frodo, come coloro con i quali «ritorna nella letteratura contemporanea l’immagine dell’uomo che è chiamato a mettersi in cammino e, camminando, conoscerà e vivrà il dramma della scelta tra bene e male», paragonandone addirittura il loro viaggio periglioso, ai confini del cuore umano, a quello intrapreso all’alba del tempo da Abramo, il quale, «chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (Ebrei 11,88).

Liberi e schietti come il patriarca dei credenti, i personaggi di Tolkien (semplici e ingenui come bambini) non hanno infatti mai contezza piena e preventiva delle dimensioni, dei pericoli e nemmeno della meta finale del loro cammino, eppure si fidano. Non hanno chiara neanche la posta messa in gioco dal loro viaggio e però si affidano. E, restando fedeli a una promessa di certezza (costantemente simboleggiata da elementi che in tutto il racconto figurano la paterna assistenza del Cielo), si lasciando prendere per mano. Accade persino ai personaggi “maggiori”, come Gandalf, che pure è un angelo in sembianze umane, il quale si lascia condurre soprattutto quando esercita il compito per cui è stato mandato nel mondo: guidare i più piccoli e timorosi.

La cifra vera di ogni azione compiuta per “sana follia” dai personaggi positivi de Il Signore degli Anelli è insomma sempre il lasciarsi destinare, e quindi compiere.

D’altro canto, i personaggi negativi del racconto, dal diabolico Sauron al titanico Saruman, dagli orrendi orchi agli uomini ormai oramai resi spettri dal tumultuare delle passioni disornate, vorrebbero invece calcolare, prevedere, avere risposte e soluzioni così da poter esercitare tirannicamente il proprio potere sulle cose che invece sono gratuitamente date (e dunque inaspettate). Ed è per ciò che alla fine cadono miseramente, non sapendo aprirsi all’insolito, all’incognito, all’inatteso. Si è molto parlato e spesso sparlato dell’idiosincrasia provata da Tolkien verso tutto ciò che è meccanico e macchinoso, volendovi artatamente leggere forme di luddismo e di ecologismo più funzionali alle mode ideologiche di oggi che al vero spirito del filologo-scrittore. In realtà, ciò che Tolkien detestava (in Tolkien tutto è figura e simbolo, talvolta persino il linguaggio corrente) è la “mente di metallo e ingranaggi” (come egli dice) tipica di coloro che Edmund Burke, davanti allo scoppio della Rivoluzione Francese, chiamo “contabili e calcolatori”.

Nella narrazione tolkieniana, tutto inizia con la creazione dell’universo da parte dell’Unico Dio e punta, non certo alla fine cronologica dei tempi, quanto alla loro pienezza sostanziale, allorché la favola mitica cede il passo alla storia fattuale saldandosi con essa e soprattutto lasciando che lì “tutto si compia” con l’avvento dalla stagione degli uomini. È questo il senso de Il Signore degli Anelli (il romanzo più noto e davvero compiuto di Tolkien), cronaca degli ultimi tempi e dei tempi ultimi dell’universo subcreato tolkienano, in cui i ritmi lenti e cadenzati delle narrazioni precedenti, spalmate su anni contanti a migliaia, subiscono un’accelerazione improvvisa del ritmo narrativo, cioè della “Storia”, che ora si conta in mesi, settimane, giorni e alla fine attimi. Decisivi. Finali. Forieri di rovesci inattesi. I personaggi che della vicenda sono i protagonisti o gli antagonisti, i comprimari oppure anche solo le comparse, danno così vita a una sontuosa galleria di scelte: modelli positivi proposti all’imitazione o esempi negativi da rifuggire. Le scene che si susseguono divengono diorami di possibilità, in cui calarsi completamente per mettersi alla prova. E le lingue elfiche che ai profani paiono inutili orpelli astrusi si fanno voci di presenze. In una glossa al suo Il nome della rosa, Umberto Eco dice, a ragione, che l’Occidente letterario ha oramai scritto ogni e qualsiasi trama escluso però ancora il giallo in cui l’assassino è il lettore. Tolkien invece – parola di pontefice – ha finalmente scritto il racconto dove il protagonista è Abramo, vale a dire il lettore che, pagina dopo pagina, cammina fidandosi “follemente” di Dio.