Adesso sono veramente dazi amari. Gli Usa escono dalla globalizzazione
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Trump annuncia la nuova politica dei dazi. Tariffe alte e per tutti. Massacrati paesi poveri come il Lesotho, alleati come Taiwan e Israele, all'Ue va già bene: il 20% sulle nostre esportazioni. Premio per chi compra americano: dazi "solo" del 10%. Non c'è politica e non c'è reciprocità: solo un tentativo radicale di azzerare il deficit commerciale degli Usa con il resto del mondo.

Con una cerimonia solenne, tenuta nel Giardino delle Rose della Casa Bianca, il presidente degli Usa Donald Trump ha annunciato il “giorno della liberazione”. Una politica tariffaria sulle importazioni da tutto il mondo che costituisce una rivoluzione nella politica commerciale degli Stati Uniti. E che, come tutte le rivoluzioni “non è un pranzo di gala” (l’espressione è attribuita a Lenin) e sarà dolorosa per tutti, molto probabilmente anche per gli americani stessi, come indica il tonfo delle Borse ieri.
I dazi annunciati sono molto più estesi e alti di quanto fosse stato annunciato e ventilato dalla Casa Bianca stessa. La tariffa più alta è del 73% all’isola di Reunion (che però è un dipartimento della Francia, dunque Ue…), poi il 50% al povero (appena 2 miliardi di dollari di Pil) Lesotho. Un paese sudafricano che Trump ha sfottuto anche nel suo discorso alle Camere (“nessuno ne ha sentito parlare”) ed è colpevole di avere molte più esportazioni negli Usa di quanto possa permettersi di importare, causa anche di una filiale della Levi’s Jeans che vende soprattutto a clienti americani. Alla Cina è andata meglio? Teoricamente sì, perché i dazi sulle sue importazioni sono “solo” del 36%, ma a questo si aggiunge la tariffa del 20% già in vigore da marzo, per cui sui prodotti cinesi si pagano dazi del 56%. E l’Unione Europea? Ci va già “bene” con una tariffa del 20%.
Non ci sono amici e nemici. A tutti viene imposta una tariffa minima del 10%, ai “cattivi” si aggiungono percentuali più alte. E non si segue un criterio di reciprocità, benché sia questo quel che Trump ha dichiarato ieri alla Casa Bianca. Israele, a inizio settimana, aveva eliminato tutti i suoi dazi sulle importazioni americane, ma si becca il 17% di dazi sulle sue esportazioni. Il Vietnam, nell’ultimo anno, si era sforzato di abbassare tutte le tariffe sui prodotti americani, ma si becca dazi del 46%. Taiwan viene colpita quasi quanto la Cina, con una tariffa punitiva del 32%. Anche l’Indonesia, che gode dello status di “Nazione più favorita”, si vede imporre dazi di pari livello, il 32%.
Ma allora come vengono calcolate queste percentuali? Secondo Trump sono una risposta (e anche moderata) ai costi imposti alle esportazioni americane dai rispettivi paesi. Per la precisione: la metà dei costi imposti alle esportazioni americane dai rispettivi paesi. Ma se andiamo a vedere i dazi dei paesi colpiti, i conti non tornano. Persino la Cina, che è molto più protezionista, impone agli Usa mediamente il 23% sulle importazioni, la metà dei dazi Usa. E Israele è il caso più eclatante: a tariffe 0, Trump risponde con un dazio del 17%. Sarebbe scorretto aggiungere le tassazioni nazionali alle tariffe, perché sono comunque imposte a tutti i prodotti, nazionali ed esteri. L’amministrazione Trump ha aggiunto la stima di quelle che sono le “barriere non tariffarie”, dunque le leggi sfavorevoli alle esportazioni americane (come il Digital Services Act in Ue, che colpisce le Big Tech) e le presunte manipolazioni della moneta a favore della produzione locale.
C’è anche il dubbio che chi ha effettuato questi calcoli non sappia letteralmente di cosa stia parlando. Ha fatto ridere tutto il mondo l’imposizione di una tariffa del 10% alle isole Heard and McDonald, vicine all’Antartide, delle lande ghiacciate abitate solo da pinguini. Oppure il 10% al British Indian Ocean Territory, abitato solo da statunitensi, impiegati civili e militari della base di Diego Garcia. È ancora oggetto di dibattito la formula con cui queste barriere non tariffarie sono state tradotte in percentuali. Il giornalista economico James Surowiecki ha constatato che tutte le percentuali stabilite dalla Casa Bianca sono il risultato di un calcolo economico di questo tipo: l’ammontare del deficit commerciale diviso per l’ammontare del totale delle importazioni Usa da ciascun paese.
Per fare un esempio: gli Usa esportano in Ue beni e servizi per 370.189 milioni di dollari, ne importano per 605.750 milioni di dollari e quindi la bilancia commerciale in deficit di 235.571 milioni di dollari. La formula inventata dall’amministrazione Trump per giustificare i dazi è: deficit (235.571 milioni) diviso per importazioni (605.750 milioni) che fa 0,39. Quindi Trump denuncia “barriere europee” pari al 39% e, siccome si sente magnanimo, ci impone dazi del 20%, pari alla metà di quell’importo. Ma quel 39% non corrisponde ai dazi, neppure è la valutazione economica di effetti di barriere legali o di manipolazioni valutarie. È semplicemente il deficit commerciale, quel che gli europei non importano dagli Usa, per i più svariati motivi, in rapporto a quel che gli americani importano da noi, per i più svariati motivi.
E la tariffa di base del 10%? Si applica a quei paesi in cui la bilancia commerciale degli Usa è in attivo, quelli in cui le esportazioni americane sono superiori alle importazioni, come il Regno Unito, l’Australia, quasi tutti i paesi dell’America latina e arabi. L’ufficio dello Us Trade Representative ha risposto che la formula non è così semplice e ne ha pubblicata una completa, usata per fare i conti su quali e quante tariffe applicare. Ma i conti tornano e sono praticamente gli stessi della formula semplificata mostrata da Surowiecki.
E soprattutto è identico il concetto. Le nuove tariffe americane non sono calcolate come risposta proporzionata ai dazi imposti dai partner commerciali, per rispondere al tanto sbandierato criterio di reciprocità. E non sono neppure delle misure politiche volte a punire i nemici e premiare gli amici. Sono, semplicemente, dei tentativi di correggere la bilancia commerciale americana. Sono dunque più alti i dazi per quei paesi da cui gli Usa importano molto di più di quel che esportano. Le tariffe sono calcolate solo sulla base di questo criterio. L’obiettivo più ambizioso è azzerare il deficit commerciale, nell’ambito di una più complessa politica di riduzione del debito pubblico. Che poi la manovra riesca o non riesca sarà il tempo a giudicarlo. Ma l’importante è capirlo e sapere che gli Usa non intendono negoziare con una logica di premi e punizioni, ma vogliono “semplicemente” sganciarsi dalla globalizzazione.