Abu Mazen, Netanyahu e la retorica sulla Shoah
Abu Mazen definisce la Shoah "il più odioso crimine" alla vigilia della scadenza dei negoziati. E intanto si allea con Hamas. Netanyahu, d'altra parte, punta sulla memoria collettiva per celare la sua mancanza di strategia. E il conflitto va avanti.
Ha ragione chi definisce una svolta la frase di Abu Mazen che rompe il tabù e dice al mondo ebraico che l'Olocausto è «il più odioso crimine contro l’umanità avvenuto nell’era moderna»? Oppure ha ragione chi sta con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e sostiene che quella del presidente dell'Autorità nazionale palestinese è solo una brillante mossa di pubbliche relazioni, apertamente contraddetta dalla riconciliazione con Hamas?
È l'eterno destino di tutto ciò che riguarda Israele e la Palestina: l'immediato dividersi dell'opinione pubblica internazionale nelle classiche due curve dei supporter di una parte o dell'altra. Un meccanismo che probabilmente è l'aiuto peggiore dato ai due popoli che abitano la Terra Santa. Mentre uno sguardo un po' più disincantato (e più disposto a vedere le contraddizioni presenti anche nella parte a cui ci si sente più vicini) forse aiuterebbe a capire meglio che cosa sta succedendo in questi giorni in questo angolo del mondo che Papa Francesco si appresta a visitare.
Solo un ingenuo, infatti, può ritenere una mera coincidenza il fatto che questa mossa di Abu Mazen arrivi proprio nell'anno in cui Yom ha Shoah - la giornata ebraica della memoria - è venuta a cadere a poche ore dall'odierno 29 aprile, il termine pomposamente fissato dalla Casa Bianca per i nove mesi di negoziato avviati da John Kerry nello scorso mese di luglio. Un tentativo trasformatosi in un fiasco per un motivo molto semplice: solo gli illusi possono ancora pensare che la pace in Medio Oriente si faccia guardando l'orologio della politica americana, con accelerazioni e frenate a seconda del calendario delle elezioni negli Stati Uniti. Dopo nove mesi di incontri, senza nemmeno una base su cui discutere, Abu Mazen, la settimana scorsa, ha ufficializzato il binario morto, con l'annunciato accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas.
Dunque ha ragione Netanyahu quando dice che il riconoscimento della Shoah in quei termini è una mossa di pubbliche relazioni, in un momento in cui israeliani e palestinesi giocano sul palcoscenico del mondo per addossarsi l'un l'altro le responsabilità del fallimento dell'ennesimo negoziato di pace. Del resto Abu Mazen avrebbe avuto un'occasione ancora più significativa per dire le stesse cose appena qualche settimana fa, quando un docente dell'università Al Quds di Gerusalemme - il professor Mohammed Dajani - è stato sommerso di insulti in Palestina per aver organizzato il primo viaggio di una delegazione di studenti palestinesi ad Auschwitz-Birkenau. Perché Abu Mazen ha aspettato solo adesso a parlare? E perché nel suo messaggio si è comunque guardato bene dal citare un'iniziativa che tanto ha fatto discutere in Palestina?
Nello stesso tempo, però, Netanyahu può davvero dirsi estraneo all'uso della retorica della memoria per schivare i nodi irrisolti di questo conflitto? Non c'è politico in Israele che abbia accostato quanto lui il pericolo di una nuova Shoah ai nemici di oggi. Intanto però la sua idea su dove dovrebbero fermarsi gli insediamenti israeliani in Cisgiordania o su come suddividere le (scarse) risorse idriche con i palestinesi - ad esempio - neanche in questo ennesimo negoziato fantasma si è azzardato a metterla nero su bianco. E anche ora - anziché rilanciare chiedendo ad Abu Mazen di far seguire alle parole i fatti, per esempio nei libri di storia utilizzati nelle scuole della Palestina - preferisce spostare subito il discorso sull'accordo con Hamas, per non perdere punti nella contesa politico-diplomatica del momento.
Da troppo tempo vive di uno sguardo miope il conflitto israelo-palestinese. Incapace di guardare davvero lontano. E per questo incapace di fare davvero i conti con il passato. Compreso quello più doloroso di tutti.