A Gaza è guerra per procura dell'Iran contro Israele
Con almeno 450 razzi lanciati su Israele da Gaza, l'ultimo conflitto è stato il più violento dal 2014. Ora è interrotto da una tregua. È iniziato con un attentato del gruppo terrorista Jihad Islamico, che poi ha condotto il grosso dei lanci. Il tutto mentre il governo stava trattando con Hamas. Jihad Islamico è considerato emanazione dell'Iran
Un conflitto infinito quello tra Israele e Palestina, che sembra sempre più lontano dal trovare una soluzione. Nonostante un nuovo cessate-il-fuoco sia entrato in vigore alle 2:30 (ora italiana) di lunedì mattina - grazie alla mediazione dell’Egitto -, negli ultimi giorni la miccia tra le due parti si è riaccesa, scatenando una delle battaglie più violente dal 2014.
In soli due giorni, sabato e domenica, una pioggia di almeno 450 razzi proveniente dalla Striscia di Gaza ha colpito il territorio israeliano, centrando anche il dipartimento oncologico dell’ospedale di Ashkelon. Immediata la reazione dello Stato ebraico, che ha risposto con raid aerei e il rafforzamento di “carri armati, artiglieria e fanteria” nel territorio di confine, preparandosi a una “imminente offensiva”. Un’escalation di violenza che ha mietuto vittime da entrambe le parti, ma che non può certo essere considerata un fulmine a ciel sereno. Alcuni episodi di tensione si erano già registrati nel mese di marzo, poco prima che le parti coinvolte nel conflitto si riunissero al Cairo per discutere la stipula di un accordo, sotto l’egida dell’Egitto.
Il patto in questione, mirato a ristabilire e stabilizzare il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, prevedrebbe la fine dell’assedio sulla Striscia di Gaza e ulteriori concessioni da parte dello Stato ebraico, in cambio della garanzia che le proteste palestinesi rimangano pacifiche. Da più di un anno, infatti, il confine tra Gaza e Israele è infiammato da manifestazioni popolari al grido di “diritto al ritorno dei rifugiati, unità dei partiti palestinesi e fine dell’assedio a Gaza”. Inaugurate il 30 marzo 2018, nel contesto della Grande Marcia del Ritorno, le proteste hanno riunito gran parte del popolo palestinese in una resistenza pacifica che sarebbe dovuta durare per sei settimane, ma che, tra alti e bassi, si è protratta fino ad oggi.
Seppure i motivi del contenzioso tra Israele e Palestina siano ben noti, negli ultimi anni, le tensioni tra le due parti sono state acuite da alcune decisioni adottate dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. In particolare, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, con il conseguente trasferimento dell’ambasciata statunitense nella Città Santa, e le recenti dichiarazioni di Jared Kushner, consigliere senior di Trump, secondo il quale, il cosiddetto “accordo del secolo”, il piano di pace statunitense per il Medio Oriente, non farà riferimento a una soluzione a due Stati. Ragioni di malcontento che si vanno a sommare a quanto riferito sabato dal Jihad Islamico - il gruppo palestinese ritenuto il principale responsabile della violenza degli ultimi giorni -, ovvero la frustrazione nei confronti della lentezza delle concessioni israeliane, necessarie per allentare la morsa della crisi economica che sta attanagliando la Striscia di Gaza, “dell’avanzata coloniale israeliana e del continuo assedio di Gaza”.
Le motivazioni addotte dal gruppo palestinese non sono nuove. Ciò che stupisce, semmai, della recente escalation di violenza è il suo tempismo: il primo attacco palestinese - lanciato da un cecchino contro i soldati israeliani di pattuglia nel territorio di confine - è avvenuto in concomitanza con le trattative del Cairo, occasione nella quale Hamas si sarebbe dimostrato più conciliante e propenso a una soluzione di compromesso che tuteli il popolo palestinese. Tuttavia l’attacco diretto contro i soldati palestinesi da parte del Jihad Islamico ha fatto riflettere gli analisti, alcuni dei quali hanno avanzato l’ipotesi che il gruppo palestinese stia lavorando come proxy per l’Iran. Nonostante sia un’organizzazione sunnita, il Jihad Islamico avrebbe preso ispirazione dagli ideali sciiti che hanno ispirato la rivoluzione iraniana.
Ciò che accomuna il gruppo a Teheran è l’opposizione radicale nei confronti dell’esistenza di Israele, rendendo il conflitto israelo-palestinese una vera e propria guerra ideologica, e non soltanto una disputa territoriale. Tuttavia, il legame con l’Iran sarebbe anche economico, dal momento che proprio Teheran risulta essere il principale sponsor del gruppo. Recentemente, la preoccupazione che l’Iran si celi dietro l’escalation di violenza è stata espressa anche dall’ex consigliere generale e di sicurezza nazionale israeliano, Yaakov Amidror, secondo il quale, il Jihad Islamico sarebbe “stato istituito dall’Iran, finanziato dall’Iran e farebbe quello che gli chiede l’Iran”. In quest’ottica, l’obiettivo delle ultime azioni dell’organizzazione palestinese sarebbe creare un diversivo: costretto a concentrarsi sulla Striscia di Gaza, “lo Stato ebraico non avrebbe abbastanza forze per affrontare la costruzione di una macchina da guerra indipendente in Siria”.
Altro motivo di riflessione è il comportamento adottato dalle Forze di Difesa israeliane nei confronti di Hamas, molto diverso rispetto al passato. Nonostante l’esercito dello Stato ebraico abbia più volte ribadito di considerare Hamas l’unico responsabile di tutti gli attacchi provenienti dalla Striscia di Gaza, in questo caso ha accusato direttamente il Jihad Islamico, affermando che il gruppo avrebbe “trascinato Hamas ad innescare le attuali tensioni”. Non stupisce, dunque, che tra le vittime dei raid israeliani vi sia anche Hamed Hamdan Al-Khodari, considerato l’anello di congiunzione tra Teheran e la Striscia, che sarebbe stato responsabile del trasferimento di“fondi dall’Iran a Gaza” e le cui “attività finanziarie hanno contribuito in modo significativo all’avanzamento delle attività terroristiche e al rafforzamento militare dei gruppi terroristici nella Striscia di Gaza”.