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CRISI

A cosa porta il referendum in Grecia

Dopodomani i greci andranno alle urne per decidere se accettare o meno le condizioni poste dai creditori internazionali. Si tratta di un voto rischioso che i sondaggi (veri e presunti) danno come testa-a-testa e su cui si gioca il futuro del governo Tsipras, prima ancora che quello della Grecia.

Economia 03_07_2015
Il parlamento greco dopo il voto a favore del referendum

La Grecia resta col fiato sospeso (e le banche chiuse) fino al prossimo 5 luglio, quando si voterà il referendum sulle condizioni poste dai creditori internazionali.

L’attesa si tinge di giallo, con la controversia su un sondaggio, pubblicato e poi smentito, attribuito alla società Gpo. Questo sondaggio rileverebbe la vittoria del “Sì”, cioè l’accettazione delle condizioni dei creditori internazionali, dunque l’approvazione di nuove misure di austerity in cambio di un rinnovo dei crediti. La vittoria del “Sì”, secondo questo sondaggio fantasma, sarebbe del 47% contro un 43% di No. “Non abbiamo alcuna responsabilità per quelle cifre pubblicate dai media e useremo tutti i mezzi legali per tutelare i nostri interessi”, ha commentato la società di sondaggi, con una nota inviata alle agenzie ieri. Ma, quelle cifre, confermerebbero un trend registrato anche da altri rilevamenti effettuati nel corso della settimana (e non smentiti): al momento dell’annuncio, il “Sì” era dato al 30%, dopo la chiusura forzata delle banche, decisa dal governo per evitare una fuga di capitali, è salito al 37% e poi al 43,3% due giorni fa. L’esito è tutt’altro che scontato, dunque, e così si spiega la dichiarazione del ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis: “Se vince il sì, mi dimetto”. Una vittoria della linea europea potrebbe comportare anche una crisi di governo più ampia, perché lo stesso premier Alexis Tsipras ha apertamente sostenuto la causa del No.

E se dovesse vincere il “No”? Benché l’opinione pubblica internazionale sia convinta che la linea del premier greco di estrema sinistra miri allo strappo con l’Ue, all’uscita dall’euro e alla reintroduzione della dracma (e per questo Tsipras è diventato un punto di riferimento per gli euroscettici, anche in Italia), il governo non la vede così. Anzi, secondo le ultime dichiarazioni di Varoufakis, rilasciate ieri, la vittoria del “No” è la precondizione per un ritorno al tavolo negoziale con gli altri ministri dell’Eurogruppo. E secondo Alexis Tsipras, una maggioranza di “No” rafforzerebbe la posizione negoziale della Grecia e porterebbe a un “accordo migliore”. Da queste dichiarazioni si comprende tutto il senso politico dell’operazione: ottenere condizioni migliori, minacciando l’uscita dall’Ue, ma senza crederci fino in fondo. Atene vuol tirare la corda, senza spezzarla. Semmai, a non dar credito a questa operazione sono i partner internazionali della Grecia, i suoi creditori. E infatti, il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem ha ribattuto: l’idea che una vittoria dei “No” possa portare a un accord migliore è “semplicemente sbagliata”. E ficcherebbe la Grecia “in una posizione molto difficile”. Quale delle due parti stia bluffando è difficile comprenderlo, prima del prossimo 5 luglio. L’Ue si comporta come se un default della Grecia e una sua probabile (a quel punto) uscita dall’Unione possa essere facilmente digerita e i danni contenuti. Tsipras scommette, invece, che l’Ue non possa permettersi di far uscire la Grecia, sia perché costituirebbe un precedente politico grave, sia perché il contraccolpo politico sarebbe troppo forte per tutti gli altri membri.

Ma quanto sarebbe forte l’impatto di un default e di una possibile “Grexit” nel paese mediterraneo? Proprio ieri, a referendum in vista e senza neppure attendere i risultati Moody's ha tagliato il rating della Grecia portandolo da Caa2 a Caa3. Questo indice segnala, dunque, un forte "rischio aggiuntivo" per i creditori privati, perché "la Grecia ha avuto scarso successo nel realizzare riforme strutturali di lungo periodo", a prescindere dalla crisi degli ultimi mesi, dallo stallo delle trattative e dal referendum. Il problema strutturale più evidente è quel 177% di debito pubblico sul Pil che, a detta degli analisti dell’agenzia di rating, "è insostenibile e a un certo punto avrà bisogno di una ristrutturazione", per quanto riguarda almeno la parte detenuta dal settore pubblico (la ex Troika). Grave anche la situazione bancaria: secondo gli analisti i greci hanno ritirato circa 44 miliardi di euro dalla fine di novembre, facendo scendere la massa in giacenza nelle casse delle banche (che dipendono dai fondi d'emergenza della Bce, anch'essi ora congelati) a 120 miliardi. Un’altra agenzia di rating, Standard&Poor’s stima che la possibilità che la Grecia esca dall’euro sia ora del 50%. In caso di “Grexit”, i danni all’eurozona sarebbero relativamente limitati. Fa eccezione, purtroppo per noi, proprio l’Italia: un'uscita della Grecia dall'Eurozona potrebbe costarci 11 miliardi di euro di maggiori oneri sul debito pubblico. Il nostro Paese, stima Standard & Poor's, fronteggerebbe l'aumento "più grande in assoluto" all'interno della zona euro. L'addio di Atene potrebbe costare in tutto 30 miliardi nel periodo 2015-2016. Il danno che subirebbe la Grecia, però, potrebbe essere immensamente superiore. Secondo l'agenzia di rating l'economia greca è per il 70% sostenuta dal sistema dell'euro. E con l'abbandono della valuta europea banche e sistemi di pagamento in generale semplicemente dovrebbero chiudere. La previsione è che nel giro di quattro anni il Pil di Atene calerebbe del 20%.

E’ in queste condizioni che Tsipras attende l’esito del voto popolare. E’ dunque difficile che possa aspettarsi un passo indietro da parte dell’Europa, se si presenta in condizioni così deboli. L’idea di un referendum è stata riproposta da Tsipras dopo che la stessa via era stata tentata, 4 anni fa, dall’allora premier socialista George Papandreou. Nel novembre del 2011 lo aveva poi cancellato, perché vide che avrebbe insospettito troppo i creditori europei e dell’Fmi. Allora, tuttavia, la proposta di un referendum sarebbe stata più realistica, la Grecia aveva ancora diverse strade percorribili. Arrivati al luglio del 2015, ha solo una scelta: fare default e uscire dall’euro, oppure accettare misure di austerity “lacrime e sangue”. In mezzo a questi due appelli al popolo, quello mancato del 2011 e quello che si farà dopodomani, c’è una storia di promesse non mantenute e di riforme effettuate solo in parte. Oggi la Grecia ha ancora un’età pensionabile fra le più basse del mondo e una spesa pubblica che, in proporzione al Pil, sfiora il 60%, la corruzione (percepita) più alta d’Europa e un mercato del lavoro fra i più rigidi dell’eurozona. Si voterà comunque, ma forse è troppo tardi.