A 50 anni dalla caduta di Saigon, smontiamo qualche mito sul Vietnam
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Il 30 aprile di 50 anni fa cadeva Saigon e finiva la lunghissima guerra del Vietnam. Fu una vittoria del comunismo, non solo asiatico ma internazionale, tuttora narrata attraverso una serie di miti ben lontani dalla realtà.

30 aprile 1975. Sono cinquant’anni dalla caduta di Saigon. La mitica “Liberazione dall’imperialismo Usa e dal regime-fantoccio di Nguien Van Thieu”. Ma come avvenne tale “Liberazione”? E di vera liberazione si trattò? Ora, come è noto la data del nostro 25 aprile fu scelta perché era stata l’inizio della sollevazione popolare, l’Insurrezione.
Bastarono pochissimi anni per conoscere il socialismo realizzato, con la cronaca dei boat people e le notizie di chi riusciva a scappare; e poi anche la ricerca storica ha fatto luce sul costo umano, in Indocina come a tutte le latitudini. Tutto questo però non ha goduto della adeguata comunicazione e tutt’oggi subisce ostracismo. Di fatto la vulgata è intatta, resta pressoché inossidabile il mito del Vietnam. Come quello di Allende e di Che Guevara. Vogliamo provare a sfatare qualche luogo comune?
La narrazione prevalente è quella di una nazione che si affranca dal giogo coloniale, dove la leadership di questo processo l’aveva il movimento comunista del Viet Minh, guidato dal leggendario Ho Chi Minh.
Gli Usa si intromisero nelle aspirazioni e nelle scelte di un popolo? E chi dice che la volontà del popolo vietnamita fosse il socialismo, esiste forse uno stato al mondo nel quale con libere e trasparenti elezioni il partito comunista sia uscito come il più votato? L’hanno enfaticamente chiamata Rivoluzione d’Agosto quella del 1945, anche se la sua scia si protrae negli anni successivi. Il copione è sempre quello di tutte le rivoluzioni marxiste: la guerra contro l’occupante straniero è occasione per scatenare una guerra civile e di classe; dapprima è una coalizione, con forze cristiane, monarchiche, radicali, liberali, ma segue poi l’epurazione delle altre componenti. Nel 1945, c’era un governo provvisorio di coalizione che, accanto ai comunisti, comprendeva i vari partiti nazionali; in appena due mesi a Hanoi e nelle immediate vicinanze furono uccise non meno di diecimila persone e nel 1946 le epurazioni continuarono su larga scala.
Ho Chi Minh portò a termine l’eliminazione fisica di tutti i potenziali rivali politici, incluso l’influente movimento trotzkista. Già in tale fase si distinse il generale Giap, uccidendo centinaia di nazionalisti vietnamiti. Alla fine del 1946 i deputati non comunisti erano stati ridotti da settanta ad appena venti; di questi venti tutti, tranne due, votavano coi comunisti. Dei due uno fu arrestato, l’altro si diede alla macchia. Nel luglio ’46 veniva soppresso l’ultimo giornale di opposizione.
Un’epurazione così completa che già nel 1947 non esisteva più nel paese una sola personalità politica che potesse contrastare il potere di Ho Chi Minh. Una seconda fase si ebbe quando gli accordi di Ginevra del 1954 consentirono il suo pieno dominio del Nord Vietnam. Pensiamo, quante energie, risorse umane, bagaglio d’esperienza, persone che avrebbero potuto portare contributi culturali acquisiti in Europa o altrove... In parte se ne giovò il Vietnam del Sud il quale, ospitando molti cattolici profughi, vide salire il peso relativo di essi e divenne economicamente molto più dinamico e ricco.
Mai diedero pubblicità alle loro stragi: la popolazione di un villaggio non aveva modo di sapere dei massacri compiuti nei paesi vicini. Si stima che il costo umano della sola riforma agraria abbia un minimo di cinquantamila persone uccise e centomila incarcerate (Hoang Van-Chi, un capo nazionalista che ebbe cariche importanti nel primo periodo, valuta il costo umano, dal 1945 al post-Ginevra, in cinquecentomila vittime; conto che coincide con le cifre fornite da G. Tongas).
Davide contro Golia, una piccola nazione ha vinto contro una grande potenza imperialista? Premessa: per i regimi totalitari fare la guerra, passare anni e anni in stato di emergenza, di legge marziale, vivere in uno stato di accerchiamento, con la paura del nemico, tutto questo è congeniale, funzionale a stringere la popolazione attorno ai loro leader.
E dell’imperialismo vietnamita, vogliamo parlarne? La famosa “Pista di Ho Chi Minh” (altro che un romantico “Sentiero”, piuttosto un sistema di strade con stazioni di sosta, magazzini, parcheggi, officine …) costituiva una costante, sistematica violazione del diritto internazionale, perché era tutta su territorio di Laos e Cambogia, in barba alla loro sovranità: una delle tante manifestazioni di prepotenza della Repubblica Democratica verso i due deboli vicini. È noto che la stragrande maggioranza dei nordvietnamiti e dei Viet Cong partecipanti all’offensiva del Tet provenivano dalla Cambogia. E così il Laos, che era longitudinalmente attraversato da questo Sentiero di Ho Chi Minh, per anni e anni dovette subire in silenzio la violazione del suo territorio. Su di esso cadevano le bombe americane e allora l’opinione pubblica internazionale protestava: contro gli americani, mica contro gli invasori del Nord. La famosa battaglia di Dak To, nelle pianure centrali, fu resa possibile dal continuo afflusso di nordvietnamiti via Laos e Cambogia. E così l’assedio di Khe San, l’epopea di Hué, ecc. Era “normale” la postura leonina della Repubblica Democratica verso i due popoli vicini.
Il sacrificio di vite umane. Un milione di morti fu il tributo di Nord Vietnam e Viet Cong; a fronte di trecentomila sudvietnamiti e quarantaseimila americani. Molti morti molto onore? È carattere comune di tutti quei regimi il disprezzo per le vite umane, il disinvolto utilizzo di martiri. Lo programmavano a tavolino. Tutti conoscono la frase compiaciuta di Ho Chi Minh a un giornalista occidentale: «Potrete uccidere dieci miei uomini per ognuno dei vostri che io uccido. Ma anche così, voi perderete e io vincerò»; traspare la concezione patrimoniale con la quale [dispongo dei] «miei uomini».
Percorrere la pista di Ho Chi Minh, comportava necessariamente la morte del 25% degli effettivi: la marcia durava mesi (anche sette o otto), si svolgeva a piedi di notte, sotto i continui bombardamenti e le insidie della giungla, la malaria, la sottoalimentazione, gli stenti, così che quei ragazzi arrivavano già stremati. Poi, siccome il governo del Nord mai ammise di avere proprie truppe in Cambogia o nel Sud Vietnam e sosteneva l’improbabile tesi che tutta la guerra al Sud fosse dovuta ad una autonoma rivolta degli autoctoni (i Viet Cong appunto), abbandonava i suoi soldati senza alcuna possibilità di mandare o ricevere lettere dalle famiglie. Furono intervistati soldati che da cinque anni non scambiavano notizie con la loro casa. Quando essi morivano la famiglia lo sapeva dopo mesi o anni; quando cadevano prigionieri nessuno li reclamava, nessuno interveniva per sapere se fossero ben trattati o no.
Il mito del Vietnam si regge su una consolidata serie di bugie, le quali debbono resistere per puntellare altri miti e narrazioni woke: tutto si tiene, perché se si sgretolano le leggende del Vietnam, allora come reggono gli altri miti della sinistra, come quelli su Allende e la Palestina?