24 maggio, una festa tutt'altro che condivisa
Il 24 maggio 1915 l'Italia entrava in guerra al fianco dell'Intesa. A cento anni di distanza si celebra quell'evento in sordina e con tante controversie politiche, come le bandiere a mezz'asta a Bolzano. L'intervento non fu voluto dalla maggioranza degli italiani, allora. E ancora oggi non è una festa universale.
Celebrazioni in sordina e tantissime polemiche per questo 24 maggio, centenario dell’intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale. Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia l’ha resa un’iniziativa politica, per mostrare il patriottismo della destra italiana. Sul fronte opposto, a Gorizia (città conquistata dagli italiani nel 1916) gli “antifascisti” manifesteranno contro il tricolore e contro la Meloni. A Bolzano, invece, le bandiere italiane saranno tenute a mezz’asta. Il (fu) Tirolo meridionale austriaco è e resta una provincia annessa all’Italia nel 1918 senza mai essere stata conquistata militarmente, dopo quattro anni di strenua resistenza delle truppe e delle milizie locali. Da quelle parti non hanno mai accettato fino in fondo l’annessione, anche se l’indipendentismo locale ha gettato le armi da mezzo secolo.
Non è difficile capire come mai la nostra memoria della Prima Guerra Mondiale, l’unico grande conflitto vinto dall’Italia, sia ancora oggetto di polemiche e di divisioni. Anzitutto, l’intervento dell’Italia fu una “guerra per scelta”, come si direbbe oggi. Non fummo invasi dal nemico, come fu nel caso di Serbia, Belgio e Francia. Non fummo costretti ad entrare a causa dell’invasione del territorio di nostri alleati, come fu nel caso della Russia. E non fummo costretti ad entrare a causa della minacciosa avanzata della Germania fino alle porte di casa, come fu nel caso della Gran Bretagna. L’Italia rimase neutrale per dieci lunghi mesi e decise ad entrare dalla parte dell’Intesa alla fine di aprile del 1915, quando nessuno stava minacciando i nostri confini. Fu una decisione calcolata, condivisa da una minoranza influente del Paese e molto rischiosa, basata sulla scommessa che la guerra sarebbe finita entro quell’anno e sarebbe stata vinta dall’Intesa. La seconda parte della scommessa fu azzeccata, in effetti: l’Intesa vinse la guerra. Ma non entro il 1915: durò altri 3 anni, ci costò 600mila morti, incluse una sconfitta drammatica, quella di Caporetto, che assieme a Canne ed El Alamein, è una delle maggiori sciagure della nostra bimillenaria storia militare. E finì con una vittoria “mutilata”, quando la nostra classe politica di allora non si ritenne soddisfatta dal bottino di guerra, un mito che gettò le basi delle successive crisi politiche e di identità, fino all’avvento del Fascismo.
Come si diceva prima, la guerra non era affatto voluta dalla maggioranza degli italiani, ma da una minoranza influente e rumorosa. L’Italia era alleata dell’Impero Austro-Ungarico e della Germania prima dell’inizio della guerra. Quando il conflitto scoppiò, Roma fece valere le sue ragioni, affermando che l’alleanza fosse difensiva, mentre il conflitto austro-tedesco, con l’invasione della Serbia, del Belgio e della Francia, era una guerra d’aggressione. La maggioranza assoluta del Parlamento, probabilmente anche dell’opinione pubblica italiana (non ci sono sondaggi in merito), condivise questa scelta. Fu solo successivamente che una componente particolarmente aggressiva della società impose la scelta dell’intervento, non dalla parte degli ex alleati, ma dei loro nemici. Era una minoranza alimentata dalla classe intellettuale e artistica di allora, che andava dal direttore del Corriere della Sera Luigi Albertini, al poeta Gabriele d’Annunzio, dai pittori futuristi ai pensatori più rivoluzionari. Si dice che il fascismo nacque ufficialmente nel 1919, ma le sue basi vennero gettate nei primi mesi del 1915, quando si costituirono i Fasci d’azione rivoluzionaria, che spingevano verso un intervento al fianco dell’Intesa, per completare il Risorgimento conquistando le terre “irredente” di Trento e Trieste, quelle abitate da italiani ma ancora sotto la corona degli Asburgo. Benito Mussolini, che allora era un socialista massimalista e aveva appena fondato il suo giornale-partito Il Popolo d’Italia (in polemica con l’Avanti, quotidiano socialista e neutralista), riteneva che una guerra totale avrebbe potuto scatenare una rivoluzione totale, scardinando il vecchio sistema politico liberale. Fu lui il principale animatore di piazza nei mesi che precedettero l’intervento.
L’interventismo sarebbe rimasto un moto minoritario e politicamente ininfluente, se non avesse trovato l’appoggio dell’ambizioso presidente del consiglio Antonio Salandra e del suo altrettanto ambizioso ministro degli esteri Sidney Sonnino, che intravvidero la possibilità concreta di fare dell’Italia un vero impero mediterraneo con un minimo sforzo bellico, intervenendo al fianco dell’Intesa quando l’Impero Austro-Ungarico, sconfitto sul fronte russo, appariva già sul punto di crollare. L’ambizione di Salandra e Sonnino si incontrò con quella di re Vittorio Emanuele III, che voleva seguire le orme del nonno Vittorio Emanuele II e apporre la sua firma all’ultima tappa mancante del Risorgimento.
Il governo e il re operarono nell’ombra, prendendo contatti con l’Intesa clandestinamente e perfezionando un trattato di alleanza a Londra il 26 aprile 1915, anch’esso tenuto segreto fino al momento dell’entrata in guerra, un mese dopo. Lo stesso capo di Stato Maggiore, il generale Luigi Cadorna, venne informato delle intenzioni italiane solo il 30 aprile. Nel frattempo, il paese continuava ad essere neutralista. Lo erano i due terzi dei parlamentari, lo era l’ex primo ministro Giolitti, che temeva come la morte la possibilità di una guerra destabilizzante. Quando, nel maggio del 1915, gli accordi segreti iniziarono a trapelare, il governo Salandra entrò in crisi, perse la maggioranza e cadde. Riuscì a tornare in sella solo per la volontà del re e per la resa politica di Giolitti che accettò il fatto compiuto, un golpe di fatto. Era contraria alla guerra la grande maggioranza silenziosa degli italiani cattolici, che seguivano l’incessante predicazione per la pace di Benedetto XV. La decisione di entrare in guerra, come nella peggior tradizione risorgimentale, fu essa stessa un atto anti-clericale. L’articolo 15 del Trattato di Londra recita: “La Francia, la Gran Bretagna e la Russia appoggeranno l’opposizione dell’Italia contro qualsiasi proposta tendente a far partecipare un rappresentante della Santa Sede in qualunque negoziato per la pace e per il regolamento delle questioni sollevate dalla guerra attuale”. Non è un caso che le iniziative di pace del 1916 e 1917, promosse dalla Santa Sede e dal Beato Carlo I, l’ultimo degli Asburgo, si siano arenate sull’Italia o a causa dell’opposizione italiana.
Erano ignari degli accordi segreti anche i diplomatici italiani a Berlino e Vienna, due capitali formalmente alleate fino ad allora. La trattativa per concessioni territoriali all’Italia, da parte di tedeschi e austro-ungarici, andò avanti fino a metà maggio. Nelle ultime proposte austriache, formulate l’11 maggio 1915 (proprio mentre nelle maggiori città italiane si svolgevano le più imponenti manifestazioni interventiste), l’Italia avrebbe ottenuto, senza colpo ferire, la provincia di Trento, tutta la riva occidentale dell’Isonzo, la trasformazione di Trieste in città aperta, il consenso per fare dell’Albania un protettorato italiano, la disponibilità a discutere sullo status di Gorizia e delle isole Curzolari (Adriatico orientale). Queste concessioni, ovviamente, sarebbero state perfezionate solo in caso di vittoria austro-tedesca, in cambio della neutralità dei Savoia. Quando l’Italia entrò in guerra, Berlino e Vienna vissero quella dichiarazione come uno dei peggiori tradimenti concepibili. E questo spiega perché Vienna non volle più sentir parlare di negoziati e concessioni a Roma, nemmeno negli anni di Carlo I, che pure voleva la pace.
Il dibattito sull’intervento italiano e sui suoi aspetti più controversi è rimasto sepolto sotto una coltre di retorica patriottica fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale. Contribuirono a farlo emergere le esperienze successive: il Fascismo, la sconfitta in guerra e l’affermazione politica di quella che, nel 1915, era la maggioranza silenziosa e non rappresentata, formata da cattolici e da una maggioranza di socialisti non interventisti. Oggi, finita anche quell’esperienza, ci possiamo guardare indietro e chiederci, su quelle scelte compiute 100 anni fa: ne valeva la pena?