
Sono passati trent’anni esatti (17 maggio) da uno dei due referendum più importanti della storia dell’Italia unita: quello sull’aborto. Correva l’anno 1981 e il Movimento per la Vita italiano, presieduto allora dall’avvocato Francesco Migliori, aveva raccolto un alto numero di firme per proporre la parziale abrogazione della legge 194, con cui era stato introdotto, nel 1978, l’aborto legale e gratuito.
Perché? Anzitutto è bene capire l’epoca: eravamo ancora nel clima post sessantottino. La cultura dominante era quella imposta dalla rivoluzione culturale che aveva predicato la “morte della famiglia”, la fine dell’autorità paterna, la droga libera e la lotta armata. Tutte aberrazioni che vanno insieme. A sostenere questa pseudo-cultura nichilista e consapevolmente anticristica, vi erano flotte di intellettuali come Italo Calvino, per lo più di provenienza comunista. Costoro fiancheggiavano la lotta dei radicali Marco Pannella, Emma Bonino, Adele Faccio, con il tifo sguaiato dei grandi media e dei poteri forti italiani. I grandi giornali erano tutti dalla parte degli abortisti: il Corriere, che in una occasione negò persino la pubblicazione di un articolo di Claudio Magris in favore della vita, e, soprattutto, Repubblica ed Espresso di Eugenio Scalfari. Furono proprio questi due giornali, insieme a svariate riviste del mondo femminista e radicale, a promuovere un tam tam mediatico efficacissimo.
Cosa dicevano, allora, gli abortisti?
Ci fu una vera gara a chi dava di più i numeri: alcuni parlamentari e giornali lanciavano la cifra di 3.5 milioni, altri proponevano due milioni, mentre i più moderati parlavano di un milione di aborti clandestini. Le femministe, senza vergognarsi di ribaltare la frittata, sfilavano con cartelli accusatori: “Ecco cosa avete fatto voi, difensori della vita, 3 milioni di aborti clandestini, 20.000 donne morte”. Con queste cifre si tentava di dire al popolo italiano: visto l’alto numero di aborti, come dato di fatto, tanto vale legalizzare un fenomeno già esistente e vasto, per poterlo, almeno, regolarizzare.
Ovviamente le cose non stavano così: anzitutto non si sapeva affatto quanti fossero gli aborti clandestini, proprio perchè erano, appunto, clandestini. Certamente però erano enormemente meno di quelli denunciati, senza alcuna scientificità, dai pro aborto. Infatti, una volta che la legge entrò in vigore, gli aborti non furono né 4 milioni né un milione, ma 187.752 mila nel 1979 e 231.008 nel 1982, cioè l’ anno successivo al referendum! Come è possibile che gli aborti siano così diminuiti, dopo essere divenuti legali, gratuiti e liberi nei primi tre mesi, mentre prima erano illegali e determinavano serie punizioni penali per il medico e per la donna? E poi, si sa, la legge fa cultura e ciò che è legale diviene, per molti, anche moralmente lecito.
Il principale artefice della 194, l’onorevole socialista Loris Fortuna - promotore anche della legge sul divorzio, poi morto in una casa di cura di suore, a Roma, secondo alcuni dopo essersi convertito-, aveva addirittura presentato l’aborto come la soluzione adatta ad un incubo tipico di quegli anni alimentato dal Club di Roma e da altri potentati oscuri: il sovrappopolamento. Arrivò dunque a difendere la 194 spiegando che avrebbe impedito che l’Italia divenisse invivibile, a causa dei troppi nati! Forse anche di qui il fatto che la 194 non solo abbassò le pene per gli aborti clandestini, mentre si diceva di volerli eliminare (oggi sono ancora moltissimi), ma omise totalmente di fornire aiuto alle coppie in difficoltà, cercando così di rimuovere, almeno in parte, le cause dell’aborto.
Queste ed altre menzogne, dunque, ottennero un grosso successo e trovarono, nel mondo laico, una opposizione debolissima. Non c’erano allora i Giuliano Ferrara. Norberto Bobbio, in verità, espresse le sue perplessità, dichiarando che gli sembrava strano che i “laici” lasciassero ai cattolici l’onore di difendere la vita innocente, mentre Pierpaolo Pasolini, rischiando il linciaggio, dichiarò pubblicamente di considerare la 194 come la “legalizzazione dell’omicidio”. A Moravia che lo accusava di posizioni reazionarie rispose: “Va bene, tu sei cinico, non credi in nulla, la vita di un feto è una romanticheria, e un caso di coscienza su un tale problema è per te una sciocchezza idealistica”.
Anche le donne comuniste dell’Udi, in quegli anni, “cambiarono idea”, nonostante si fossero schierate, solo pochi anni prima, contro l’aborto, sostenendo che la sua legalizzazione avrebbe deresponsabilizzato gli uomini, spingendoli a fregarsene delle conseguenze di un rapporto con una donna. Una posizione lungimirante, dal momento che lo slogan “l’utero è mio e lo gestisco io” ha spesso significato, in tutti questi anni, che il maschio non disposto a prendersi cura della compagna o moglie, e del figlio, ha potuto rovesciare la frittata: “l’utero è tuo e te lo gestici tu”.
Ma la sconfitta del fronte pro life non avvenne solo per la forte sproporzione delle forze in campo. Fu dovuta, forse ancora di più, alla divisione del mondo cattolico. Alcuni, come Franco Rodano, leader dei cosiddetti “comunisti cattolici”, difesero la 194 come una “conquista delle donne”. Ma ci furono, soprattutto, frotte di tiepidi; intere associazioni cattoliche che preferirono defilarsi, ritenendo che su quel tema non bisognasse scontrarsi, come se la vita o la morte di milioni di persone non fossero poi tanto importanti. Anche nel mondo ecclesiastico la prudenza e la paura dello scontro ebbero spesso il sopravvento.
Si procedette un po’ in ordine sparso, e una parte del mondo pro life, con personalità forti e influenti, finì per disertare il referendum minimale (quello massimale era stato ingiustamente bocciato dalla Corte, col probabile sostegno della Dc), dichiarando che era formulato male e che, permettendo l’aborto cosiddetto “terapeutico”, avrebbe in verità favorito la cultura abortista, con il rischio, in più, del “timbro cattolico”.
Inoltre vi era un altro, pesante ostacolo: la Democrazia Cristiana. Già vicina al suo decesso, la Dc era animata anche da uomini che, come già Aldo Moro, ritenevano che divorzio ed aborto non fossero temi su cui ragionare, su cui dividersi, su cui impegnarsi. Il famoso statista lo aveva dichiarato pubblicamente già nel 1975: lasciamo perdere queste questioni e dedichiamoci ad altro… Eppure la Dc era il riferimento di molti cattolici, che aspettavano che battesse il primo colpo (quantomeno per la sua forte organizzazione). Invece “il partito dei cattolici” funse da freno: anzitutto cercò di impedire che si raccogliessero le firme per il referendum abrogativo, raffreddando molti animi e facendo perdere degli anni preziosi; inoltre agì persino su uomini che avevano ruoli di punta nel mondo pro life, invitandoli a tergiversare e a tenere un basso profilo; poi, quando scongiurare il referendum si rivelò impossibile, la DC spinse per un referendum minimale, che potesse risultare più “aperto”, più laico, ma anche meno chiaro; infine, quando fu necessario mobilitare il proprio elettorato, come in ogni elezione, il partito venne a mancare, scomparve.
Senza Dc, senza mezzi, senza giornali, senza un appoggio sistematico e organizzato, ma solo saltuario, delle gerarchie ecclesiastiche, i pro life si trovarono divisi, sfilacciati, deboli. Inevitabile, per tutti questi motivi, la sconfitta. Ma proprio la storia di quegli anni ci dovrebbe insegnare a non ripetere quegli errori. Arriverà pure il momento in cui sui “principi non negoziabili” almeno i cattolici troveranno unità, coerenza e coraggio.