Zimbawe, fine di una lunga dittatura africana
L’era di Robert Mugabe è davvero finita. Il 21 novembre al presidente dell’assemblea (parlamento) dello Zimbabwe è stata recapitata la lettera con cui il presidente africano più longevo annunciava le proprie dimissioni. E' la fine di 37 anni di dittatura e di dura repressione, che hanno ridotto il paese alla fame.
L’era di Robert Mugabe è davvero finita. Il 21 novembre, il parlamento dello Zimbabwe aveva appena iniziato a discutere il suo impeachment quando al presidente dell’assemblea è stata recapitata la lettera con cui il presidente africano più longevo annunciava le proprie dimissioni. La seduta è stata sospesa, mentre i parlamentari esultavano e si congratulavano. La notizia si è subito diffusa, la gente ha incominciato a riversarsi per le strade festeggiando. Pochi minuti dopo l’annuncio ufficiale delle dimissioni, un inviato della Bbc ha descritto la capitale Harare come “una città che canta rumorosamente la propria gioia”.
Il 15 novembre l’esercito aveva preso il controllo del paese sostenendo di voler perseguire non il presidente ma la banda di ladri attorno alla moglie Grace, responsabili delle sofferenze e delle difficoltà in cui versa il paese. Nei giorni successivi folle euforiche hanno invaso le strade di Harare, a piedi, in macchina, sui tetti degli autobus, suonando i clacson e cantando “Lui se ne deve andare”: scene mai viste per anni, impensabili in un paese per 37 anni nella morsa della repressione, tanto è durato il regime di Mugabe, acclamato come eroe dell’indipendenza, raggiunta nel 1980, ma niente altro, in realtà, che un uomo avido di potere, uno dei tanti dittatori che in Africa hanno tradito le aspettative di chi in patria e nel mondo aveva creduto alle loro promesse di democrazia e sviluppo.
L’intervento dell’esercito era stato deciso pochi giorni dopo che Mugabe aveva destituito il proprio vice, Emmerson Mnangagwa, fino ad allora considerato il più probabile candidato alla sua successione. Si è capito così che il presidente invece aveva scelto come proprio successore la moglie Grace, sostenuta da una parte del partito di governo, lo Zanu-PF, ma non dai suoi esponenti più anziani e invisa ai veterani dell’indipendenza che per la prima volta hanno deciso di non seguire le direttive del loro leader.
L’esito della crisi tuttavia era tutt’altro che scontato, le dimissioni volontarie erano una delle opzioni, ma non l’unica. I portavoce dei militari non hanno accusato Mugabe, ma i “criminali autori di crimini” che hanno approfittato della sua tarda età – ha compiuto 93 anni – con la complicità di sua moglie e hanno continuato a chiamarlo “sua eccellenza il presidente”. Il suo rivale storico Morgan Tsvangirai, leader dell’Mcd, principale partito all’opposizione, l’uomo che lo ha sfidato per anni attaccandolo duramente senza pesare le parole, anche lui ha mostrato deferenza in questa fase. Ne ha chiesto le dimissioni “in conformità con le aspettative e i sentimenti nazionali, nel pieno rispetto della sua eredità e del suo contributo allo Zimbabwe, prima e dopo l’indipendenza”.
Forse lo ha fatto, come qualcuno suggerisce, perchè molti nel paese considerano ancora Mugabe il padre della patria, forse perchè il rispetto per gli anziani, così profondo nella tradizione tribale africana, richiede che se ne tuteli la dignità sempre, anche quando non meritano fiducia. Forse invece, conoscendolo bene, militari e avversari hanno pensato di offrirgli la possibilità di uscire di scena con onore, ostentando un ultimo atto di potere.
Due giorni dopo l’intervento militare, Mugabe ha consegnato i diplomi universitari ai nuovi laureati dell’Università dello Zimbabwe, indossando come sempre in questa occasione toga e tocco. È stato il suo ultimo atto pubblico in qualità di presidente. Lascia un paese in cui adesso per causa sua la gente in media è più povera del 15% rispetto al 1980 quando lui ha assunto il potere.