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CINA

Zhou, il centenario ribelle che latinizzò il mandarino

Il giorno dopo avere compiuto 111 anni, il 14 gennaio si è spento a Pechino Zhou Youguang (1906-2017), il padre della vera rivoluzione cinese. Fu infatti lui, negli anni 1950, a rendere intellegibile e comunicabile il mandarino, la lingua cinese ufficiale, alfabetizzandone la scrittura in caratteri latini.

Cultura 22_01_2017
Zhou Youguang

Il giorno dopo avere compiuto 111 anni, il 14 gennaio si è spento a Pechino Zhou Youguang (1906-2017), il padre della vera rivoluzione cinese. Fu infatti lui, negli anni 1950, a rendere intellegibile e comunicabile il mandarino, la lingua cinese ufficiale, alfabetizzandone la scrittura in caratteri latini. E se è vero che i totalitarismi sono essenzialmente società chiuse repressive, allora significa che l’aberrante comunismo cinese ha cominciato a morire ancora prima di aver terminato di nascere il giorno in cui, senza saperlo, Zhou lo mise in contatto con il resto del mondo.

Al danno si è peraltro unita la beffa. Zhou perfezionò infatti un ingegnoso quanto semplice sistema di translitterazione proprio su richiesta del regime. L’idea di riformare il Paese anche linguisticamente circolava da decenni, ma furono i comunisti, giunti al potere nel 1949, a farne un punto nodale del loro programma rivoluzionario. Il primo passo fu semplificare la scrittura dei logogrammi (dizione più precisa di quella comunemente usata, ideogrammi), l’antichissimo e complesso sistema di comunicazione che fondamentalmente fa di ogni segno grafico, a suo volta composto da diversi altri segni, una parola-concetto unica dal momento che veicola significati e non suoni (diversissimi nelle varie regioni di quell’area geografica vastissima). L’unico modo per leggere e per scrivere il cinese tradizionale è dunque quello d’imparare i logogrammi a memoria, e il grande dizionario voluto dall’imperatore Kang Xi (1654-1722) all’inizio del Settecento ne conta quasi 50mila. Già dire “dizionario” è del resto un eufemismo, visto che i logogrammi, non alfabetici, non si possono nemmeno ordinare per iniziale. Problemi arcaici del Celeste impero? Per nulla. Scrivere oggi in logogrammi costa a una persona di buona cultura l’impiego di 30mila caratteri sovente parecchio articolati sul piano grafico, la lettura di un quotidiano ne richiede la conoscenza di 8mila e il dialogo quotidiano 3mila. 

In più il regime comunista aveva un’esigenza impellente: unificare l’oceano d’idiomi, dialetti e parlate in cui era (è) frastagliata la Cina. Come ben sa ogni regime, la lingua e la scuola e il servizio militare e la televisione sono strumenti supremi di omologazione e di “rieducazione”. E così, se per Lenin il comunismo era il socialismo più l’energia elettrica, per il maoismo lo è stato la collettivizzazione anche della lingua imposta del mandarino standard, la parola-potere con cui Pechino ha riunito e controllato il Paese imitando il sogno egemonico degl’imperatori del passato. Il passaggio a una scrittura diversa, universale nel suo rappresentare ogni suono attraverso un segno inequivocabile, ovvero i caratteri latini (dopo avere scartato altre possibilità, tra cui il cirillico), si presentò subito al partito come fattore decisivo per la facilitazione dell’apprendimento della neolingua da parte delle masse. Nel 1955 l’Assemblea Nazionale del Popolo incaricò allora Zhou di organizzare un team di lavoro e il risultato fu il pinyin, il “mandarino latinizzato” diventato scrittura ufficiale nel 1958.

Zhou si occupava di linguistica solo per diletto. Aveva persino scritto un libro sull’argomento, ma il lunario lo sbarcava lavorando in banca (era un economista). Anzi, facendo il banchiere di un discreto successo, tanto da essersi trasferito a New York. Infatuato del marxismo, in Cina ci tornò sull’onda dell’entusiasmo per il “nuovo corso”, ma fu solamente perché lavorava al pinyin che non finì nella mattanza maoista che spazzò i “pericolosi reazionari” rei soltanto di avere studiato all’estero. 

Del resto, dopo quel suo primo, ingenuo entusiasmo per la rivoluzione, Zhou divenne un critico serrato del regime. All’apice della devastazione della “Grande rivoluzione culturale” (1966-1969) venne dunque marchiato come “reazionario” e finì nel laogai, l’arcipelago dei campi di lavoro forzato, a spippolare il riso. Scontata la pena di due anni, tornò a Pechino vivendo isolato da tutti; praticamente ai domiciliari, realizzò la traduzione ufficiale cinese dell’Enciclopedia Britannica e scrisse dieci libri, qualcuno censurato.

Nato che in Cina c’era ancora l’imperatore, sposato per 69 anni con Zhang Yunhe e padre di due figli, le rare volte che riusciva a scambiare qualche battuta con qualche giornalista occidentale ne approfittava per dire male del regime rosso. Il quale ha cercato di strumentalizzarne il genio mentre lui ne temeva le zampate; in una intervista alla BBC del 2012 chiese: «Che faranno? Verranno a portarmi via?». Sino all’ultimo ha vissuto sperando che Pechino potesse battersi pubblicamente il petto per il micidiale massacro di Piazza Tienanmen, ma nella Cina che il mondo intero teme e coccola quello è ancora un argomento tabù. Eppure quando quel giorno finalmente verrà, il mondo intero lo saprà leggendo la notizia grazie al pinyin di Zhou Youguang.