Zanzibar, cristiani sotto attacco
Aggrediti con l'acido, uccisi a colpi di pistola. E le chiese vengono incendiate: la vita per la minoranza cristiana e per gli occidentali a Zanzibar (l'arcipelago africano al largo del Tanzania) è sempre più dura. Mandante degli attentati è il movimento jihadista Uamsho.
Un sacerdote, Joseph Anselmo Mwangamba, è stato aggredito il 14 settembre a Zanzibar, l’arcipelago al largo delle coste del Tanzania, da alcuni uomini che gli hanno gettato addosso dell’acido mentre camminava per le strade di Stone Town, la città vecchia. Ha riportato bruciature al viso e alle spalle ed è ricoverato in un ospedale.
Il 7 agosto la stessa sorte era toccata a due diciottenni inglesi, ebree, Katie Gee e Kirstie Trup. Stavano passeggiando quando sono state avvicinate, sempre nella città vecchia, da due uomini a bordo di un ciclomotore che le hanno colpite con getti di acido ferendole al torace e alle mani. Entrambe erano in Tanzania come volontarie per insegnare per tre settimane in una scuola. Una delle due, Katie, alcuni giorni prima era stata aggredita da una donna musulmana offesa e infuriata per averla sentita cantare nonostante che si stesse celebrando il mese sacro del Ramadan.
Mandante dell’attentato alle due volontarie sembra sia stato l’imam Sheikh Issa Ponda, sfuggito alla cattura e tuttora ricercato dalla polizia. L’uomo, ritenuto il capo del Consiglio degli imam locale, era già stato arrestato in passato con l’accusa di incitamento all’odio religioso e di organizzazione di manifestazioni non autorizzate. È un membro del gruppo islamista Uamsho (Risveglio, in lingua swahili) che si batte per la piena indipendenza dell’arcipelago (ora a statuto semi indipendente) e per l’adozione della legge coranica. Degli aggressori del sacerdote ancora non si conosce l’identità, ma i sospetti si orientano sui militanti di Uamsho.
I due episodi, gravi di per se stessi, destano particolare preoccupazione perché si inseriscono in un clima di crescente tensione. Lo scorso novembre a essere sfigurato con dell’acido era stato il religioso musulmano Sheikh Fadhil Suleiman Soraga (gli estremisti islamici non risparmiano i loro correligionari, se li giudicano deboli nella fede). A dicembre un altro sacerdote cattolico, padre Ambrose Mkenda, è stato ferito gravemente a colpi di arma da fuoco mentre rientrava a casa e a febbraio padre Evarist Mushi è stato “giustiziato” sulla soglia della sua chiesa. Nel rivendicare quest’ultimo attentato, Uamsho aveva minacciato ulteriori stragi – “bruceremo case e chiese” – e aveva ringraziato per le imprese compiute dai propri giovani addestrati in Somalia dai terroristi al Shabaab, legati ad al Qaeda.
Dal 2001, anno di fondazione di Uamsho, decine di chiese e di edifici religiosi cristiani sono stati in effetti incendiati o danneggiati a Zanzibar e, di recente, si sono verificate diverse manifestazioni di intolleranza anche nel resto del Tanzania: le più violente a ottobre del 2012, quando nella capitale Dar es Salaam una chiesa è stata distrutta e tre bruciate da una folla inferocita.
Il 99% degli abitanti di Zanzibar sono musulmani. In tutto il Tanzania invece sia gli islamici che i cristiani costituiscono circa il 35% della popolazione. Fino a pochi anni or sono nel paese non si erano posti problemi di convivenza tra le due comunità tali da creare allarme diffuso. Neanche il ricordo delle sofferenze patite a causa della tratta araba degli schiavi ha mai pesato seriamente nei rapporti tra islamici e non islamici: e dire che ne sono stati vittime circa 12 milioni di africani animisti e cristiani nell’arco di un millennio. Proprio Zanzibar, colonizzato come il resto delle coste e delle isole dell’Africa ora territori di Kenya e Tanzania dagli arabi a partire dalla fine del primo millennio, e divenuto nel 1698 parte del sultanato di Oman, è stato per secoli il principale mercato di schiavi dell’Africa orientale. Lì venivano portati gran parte degli africani catturati e acquistati dai mercanti arabi che si inoltravano nel continente alla ricerca di merci: gli schiavi, insieme all’avorio, erano le più pregiate. Salvo alcune migliaia, acquistati ogni anno dai residenti e impiegati nelle piantagioni dell’isola, tutti gli schiavi venivano imbarcati su navi dirette verso i paesi arabi, l’Iran e l’India. Fu il blocco navale imposto dalla Gran Bretagna a mettere fine alla tratta araba, le ultime attività della quale furono sradicate soltanto nel 1922. Ne resta traccia nel disprezzo, talvolta manifestato con parole aspre, di coloro che vantano origini arabe nei confronti dei “neri discendenti di schiavi”.