Zalone, il flop di voler piacere a chi non lo amava
Tolo Tolo vuole mettere d’accordo tutti, ma sconta la presenza ingombrante di Virzì. È un film che cerca l’equilibrio su un tema drammatico come l’immigrazione, ma dalla posizione di chi vuole insegnare agli italiani i loro errori. E alla fine ci si accoda al pensiero unico e lo sberleffo irriverente non arriva.
Dentro c’è un po’ di tutto: l’amore che vince il fascismo e l’accusa agli africani di essere razzisti con “noi bianchi”. Non spoileriamo nulla se diciamo che Tolo Tolo è un film che ha l’ambizione di voler mettere d’accordo tutti. E per questa ambizione paga il caro prezzo di essere conformista e prevedibile.
A farne le spese sono le risate, però. I bambini non capiscono i tantissimi riferimenti all’attualità e gli adulti si chiedono quando arriverà la battuta regina da scompisciarsi che però non arriverà mai. Quella dissacrante, coatta, irriverente. Insomma, quella che demolisce i cliché.
Si torna a casa senza un’immagine, una battuta da ricordare. A parte la bellezza numidica di Idjaba e la freddura su Dudù, il cane di Berlusconi, che in un qualunque altro Zalone precedente sarebbe stata classificata in ultima posizione tra gags memorabili.
Il tema è quello dell’immigrazione, ambizioso e rischioso di suo, ma la trama è originale e nella regia si nota una certa maestria. Come ad esempio la scena del bombardamento e dell’arrivo dell’Isis che sono in grado di dare il senso del dramma. Merito – forse – di Paolo Virzì, che ha collaborato alla sceneggiatura e la regia. Ma forse anche limite di Paolo Virzì, perché in Tolo Tolo si notano anche i meccanismi tipici del regista livornese: il conformismo cerchiobottista visto però da sinistra: come in Ferie d’agosto: la famiglia di destra, con difetti, tanti, e pregi, pochi, e la famiglia di sinistra, con le sue manie stupide, sopportabili e la sua superiore intelligenza.
Il film ripercorre lo stesso schema: né sovranista né immigrazionista; né filo ong né salviniano. Vuole essere un po’ un tutto, ma di tutto c’è un po’ e nel voler cercare l’equilibrio alla fine ci si accoda al pensiero unico del festival delle culture dove il nigeriano canta la pizzica e il finale triestino che sembra proprio buttato lì senza un senso perché alla fine del viaggio le idee erano finite.
Il problema sta proprio nella volontà di essere equidistanti e di sentirsi migliore degli italiani e delle loro partigianerie su un tema, quello dell’immigrazione, di cui si riesce a ridere, ma che non può diventare macchietta da avanspettacolo (tragicamente ridicolo il balletto in acqua dopo il naufragio). A tratti sembra un film di Virzì con gli innesti adorabili di Zalone. Che però viene addomesticato pensando che in questo modo piacerà anche a quella parte di italiani che fino ad ora lo avevano snobbato perché volgare, irriverente e cozzalone. A Pigibattista del Corriere è piaciuto proprio perché sopra le parti, a Famiglia cristiana, figuriamoci: lo vuole proiettare come medicina ai sovranisti. È evidente che l'operazione mediocritas è servita. Addio schiaffi al pensiero unico.
Era il suo bello e il suo coraggio. E il trailer, così irriverente, ci aveva ingannati. Era lui che faceva ridere gli italiani di cui si burlava e dei quali in fondo capiva e condivideva tic e manie. Qui entra nella categoria saccentella un po’ radical di voler spiegare come si fa, di voler accomodare perché in fondo gli italiani con le loro tifoserie mica l’hanno capito. E qui sta il flop.
In fondo prendere in giro gli “uominisessuali” oggi per lui sarebbe proibitivo. Perché il pensiero dominante è potere. Allo stesso modo burlarsi dei migranti, profughi, richiedenti asilo e di chi su di loro specula in Italia (unica categoria assente nel film, guarda caso) richiederebbe una dose di coraggio che fama, incassi e convenienze non gli permettono più. Peccato.