Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
STATALISMO

Web Tax, la nuova tassa che non ci voleva

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Estendere la platea di applicazione della Digital Services Tax (DST), comunemente chiamata web tax, vuol dire colpire i piccoli imprenditori e non i colossi del web. Imprese digitali ed editori protestano contro il governo.

Economia 31_10_2024
Web tax

Si parla da anni della necessità di riequilibrare la tassazione in Rete, senza penalizzare la libertà d’impresa ma introducendo elementi redistributivi e di progressività, anche per obbligare chi guadagna di più a pagare di più e soprattutto a pagarlo nel territorio in cui incamera i profitti. Per i colossi del web questo meccanismo non è mai scattato e così nel tempo si sono acuite le disuguaglianze nell’economia digitale.

La soluzione dovrebbe essere presa a livello globale, ma al momento ogni Stato prova a muoversi in autonomia, con risultati di dubbia efficacia. E così anche il governo Meloni sta provando a disciplinare la materia in maniera più puntuale, ma commettendo un tragico errore di prospettiva, quello di mettere sullo stesso piano i giganti del digitale, in grado di produrre beni e servizi con economie di scala e fatturati giganteschi e le piccole e medie imprese e le start up, che con una tassazione penalizzante rischiano di vedere tarpate le proprie ali.

L’esecutivo nei giorni scorsi ha dovuto frenare rispetto all’idea iniziale preannunciata peraltro in maniera roboante, cioè quella di estendere la platea di applicazione della Digital Services Tax (DST), comunemente chiamata web tax. Dal 2025, stando almeno alle intenzioni di qualche settimana fa del governo, l’imposta sui ricavi digitali potrebbe applicarsi non più solo ai colossi come Google e Meta, ma a tutte le imprese che offrono servizi digitali nel Paese, senza alcuna soglia minima di fatturato. Una scelta che, come prevedibile, ha sollevato le proteste di editori, associazioni di categoria e, in particolare, delle piccole e medie imprese, le quali rappresentano oltre il 90% del tessuto imprenditoriale italiano.

Introdotta nel 2020, la DST italiana si è inizialmente ispirata ai modelli di Francia e Austria, con l’obiettivo di far pagare una quota di tasse alle multinazionali digitali sui ricavi generati all'interno del Paese. La tassa del 3% si applicava solo a quelle società che superavano i 750 milioni di euro di fatturato globale e i 5,5 milioni in Italia. La norma colpiva principalmente le entrate derivanti dalla pubblicità online, dalle commissioni di piattaforme come Amazon o Booking, e dalla vendita dei dati degli utenti.

Il nuovo disegno di legge, presentato all'interno della legge di bilancio, elimina completamente queste soglie. La tassa del 3% si estenderebbe, quindi, a tutte le imprese digitali italiane, indipendentemente dalla loro dimensione. Tuttavia, resterebbe applicabile solo a tre specifiche categorie: pubblicità mirata, servizi di intermediazione e vendita dei dati utenti.

L’estensione della web tax ha suscitato l’allarme di Netcomm, il consorzio italiano delle imprese digitali, che teme un impatto devastante soprattutto sulle piccole e medie imprese, tanto più perché la tassa si applica ai ricavi lordi, anziché ai profitti, costringendo così molte aziende a rivedere i propri modelli di business e, verosimilmente, ad aumentare i prezzi per compensare il nuovo carico fiscale.

Secondo l’Agenzia delle entrate, il mercato della pubblicità online in Italia ha generato nel 2022 ben 5,9 miliardi di euro, con l’85% delle entrate in mano ai colossi del web. Tuttavia, il governo sembra fiducioso che la nuova tassa possa generare 51,6 milioni di euro di entrate, contribuendo a un pacchetto di misure fiscali che punta a un gettito complessivo di circa 150 milioni.

Anche la Federazione Italiana Editori Giornali (FIEG) si è unita a Netcomm nel manifestare profonda preoccupazione. Gli editori vedono nella nuova web tax un paradosso: l’imposta potrebbe colpire proprio le aziende italiane che si voleva proteggere dalla concorrenza sleale delle multinazionali. In una nota, la FIEG ha espresso "stupore e amarezza" per l’estensione dell’imposta, che rischia di aggravare la disparità tra le aziende italiane e i giganti globali, i quali godono di benefici fiscali grazie alla loro presenza in paesi con regimi agevolati come Irlanda o Lussemburgo.

Questo vespaio sollevato dall’annuncio del governo vede coinvolte per la verità anche due delle tre forze di maggioranza, perché Lega e Forza Italia non condividono il provvedimento annunciato da Palazzo Chigi e hanno chiesto un supplemento di riflessione. Quindi se ne riparlerà in fase di discussione e approvazione della manovra in Parlamento, con possibili, anzi probabili cambiamenti rispetto al testo iniziale per ridurre l'impatto negativo che la nuova disciplina fiscale in materia digitale potrebbe avere sulle piccole imprese.

Si tratta di un ragionevole auspicio, perché altrimenti il rischio è duplice: da una parte costringere a una doppia tassazione le imprese editoriali italiane che pagano regolarmente le tasse e dovrebbero pagarne un’altra, appunto la web tax, con pesanti danni per l’editoria tradizionale ma anche per quella online; dall’altra penalizzare l’innovazione in generale, perché rischierebbe di diventare disincentivante per le imprese meno strutturate destinare ingenti somme agli investimenti in tecnologie. Sarebbe dunque un autogol per il governo e per l’economia del Paese.