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SIRIA

Volontarie italiane rapite. I rischi della cooperazione

Greta e Vanessa, giovanissime, lombarde, armate di tutta la buona volontà di questo mondo, sono andate nella Siria del Nord per un progetto di assistenza sanitaria. Sono sparite dal 28 luglio scorso. Mentre la Farnesina si mobilita, è bene fare una riflessione sulla cooperazione in aree di guerra civile.

Esteri 07_08_2014
Greta e Vanessa

«Durante questa missione siamo stati sempre accompagnati e scortati da personale locale, con un alto grado di sicurezza». Così scrivevano le volontarie italiane del progetto Horryaty, Assistenza Sanitaria in Siria, alla fine del loro sopralluogo in marzo. Un solo scopo: curare i civili siriani in guerra, nella regione di Idlib, nel Nord del Paese, non lontano da Aleppo. Quell’alto grado di sicurezza si è rivelato, purtroppo, un’illusione. Le volontarie italiane Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono state rapite. Se ne è persa ogni traccia il 28 luglio scorso, da sette giorni non se ne hanno notizie. La Farnesina ha attivato i suoi canali e l’Unità di crisi e mantiene il massimo riserbo sulla vicenda. Di rapimento si parla, comunque, perché testimonianze attendibili in loco parlano di un’azione condotta da una decina di uomini armati, che hanno portato via, con sé, le due volontarie.

Giovanissime, lombarde, armate di tutta la buona volontà di questo mondo, sono operatrici umanitarie alle prime armi. Sul loro curriculum, pubblicato sulla pagina Facebook di Horryaty, leggiamo di Vanessa Marzullo: «21 anni, di Bergamo. Studentessa di Mediazione Linguistica e Culturale, curriculum Attività Internazionali e Multiculturali - lingue: Arabo e Inglese. Volontaria presso Organizzazione Internazionale di Soccorso. Dal 2012 si dedica alla Siria, dalla diffusione di notizie tramite blog e social networks all'organizzazione di manifestazioni ed eventi in sostegno del popolo siriano in rivolta. Questo culmina nell’organizzazione e nella nascita del Progetto “Assistenza Sanitaria in Siria”». Della collega Greta Ramelli: «20 anni, di Varese, studentessa di Scienze Infermieristiche. Diplomata al liceo linguistico Rosetum dove ha studiato inglese, spagnolo e tedesco. Volontaria presso Organizzazione Internazionale di Soccorso, operatrice pronto soccorso trasporto infermi e nel settore emergenza (livello operativo). Nel maggio 2011 trascorre 4 mesi in Zambia nelle zone di Chipata e Chikowa lavorando come volontaria presso 3 centri nutrizionali per malati di AIDS, incluso alcune settimane presso le missioni dei padri comboniani. Nel dicembre 2012 ha trascorso tre settimane a Calcutta, India, dove ha svolto volontariato presso la struttura Kalighat delle suore missionarie della carità e ha visitato progetti di assistenza alla popolazione indiana presente negli slums. Attualmente si occupa principalmente di Siria, sia per quanto riguarda l'accoglienza profughi insieme ad altri volontari, sia per attivismo e per aiuti umanitari. Al momento collabora con il Comitato S.O.S. Siria di Varese, l’Associazione delle Comunità Arabe Siriane e IPSIA Varese nel progetto “Assistenza Sanitaria in Siria”».

La pagina Facebook del progetto non viene più aggiornata dal 17 luglio scorso. È carica di notizie sulle iniziative di raccolte fondi per finanziare il progetto assistenziale in Siria: aperitivi benefici, rassegne cinematografiche, mostre, tutti soldi raccolti per comprare latte in polvere, medicinali e quant’altro potesse essere necessario per allestire un servizio di sostegno ai medici locali. Leggiamo, sempre dal loro sito, i due obiettivi della missione: «1. Attivare un corso base di primo soccorso e rifornire alcune aree di kit di emergenza di Primo Soccorso corredati di tutto il materiale occorrente. 2. Garantire ai pazienti malati di patologie croniche di accedere alle giuste terapie rispettando i tempi, dosi e qualità dei farmaci».

Nella fitta “nebbia di guerra” che ancora avvolge la loro vicenda, non si può ancora sapere con certezza se siano state rapite, anche se ormai tutti i quotidiani titolano con la parola “rapimento”. In tal caso, non è ancora possibile conoscere la mano del rapitore. Sarà per soldi o per ideologia? Paradossalmente, tutti speriamo e preghiamo che sia “solo” per soldi. Rimpiangiamo, ormai, i banditi che si limitavano a chiedere riscatti in denaro. Sappiamo, infatti, che chi rapisce per ideologia non molla la preda. O lo fa dopo mesi, o anni, di estenuanti trattative dove le rivendicazioni politiche si mischiano a quelle puramente economiche. E anche quelle economiche diventano politiche, nel momento in cui vengono reinvestite subito nell’acquisto di armi per la causa. Così ci ha abituato il terrorismo mediorientale: la jihad ha fatto dei rapimenti un’industria, la prima fonte di proventi con cui finanziare l’acquisto di armi. Rapire uno, due occidentali è l’affare del secolo.

In attesa di conoscere meglio chi siano i rapitori, siamo tutti obbligati a una triste riflessione sulla cooperazione internazionale. In zona di guerra, non funziona. A meno che non si tratti di organizzazioni talmente protette e talmente riconosciute a livello internazionale da risultare immuni alle aggressioni locali. La Croce Rossa Internazionale difficilmente viene attaccata, proprio per il prestigio di cui gode presso tutte le parti in guerra. Ma, ugualmente, in aree in cui il conflitto è intenso, rischia allo stesso modo di tutti i civili. In zona di guerra ci va chi è inserito in una missione di pace, coperto dai caschi blu, armati e addestrati. Una scorta di “personale locale”, come quella dichiarata dalle volontarie italiane, è sufficiente? È affidabile? Aprire un ospedale in Siria, dove le linee del fronte sono più che fluide, le città passano di mano in mano, le milizie si dividono e si combattono fra loro, anche se fino al giorno prima erano assieme (e l’amico di ieri può diventare di colpo il nemico di oggi), è un compito che richiede la presenza di personale militare altamente qualificato, possibilmente internazionale. Non si tratta di operare in India o in Zambia, ma in un Paese dove si combatte una guerra senza esclusione di colpi, in cui anche gli ospedali diventano bersagli.

In tutte le storie di rapimenti in Siria, dal giornalista Domenico Quirico che è uscito vivo da un inferno, a padre Paolo dall’Oglio che è scomparso nel nulla da un anno, vediamo sempre rapitori che non comunicano, non trattano, oppure usano i loro ostaggi come pedine di un gioco. Se va bene, sono oggetti di scambio. Se va male sono “trofei”. Se sono occidentali valgono di più. Se sono donne occidentali, valgono ancora di più. Non è un caso che neppure l’esercito israeliano manda le sue ragazze (che pure sono armate e addestrate) in prima linea. Tuttora teme che cadano prigioniere di un nemico senza scrupoli. Comunque vada, in questa vicenda, noi abbiamo perso, dal punto di vista dei rapitori. Perché noi apparteniamo ad una cultura che ama la vita, al punto da rischiarla per salvarne tante altre, in un Paese lontano. Ma abbiamo a che fare con bande di rapitori, mosse da soldi, ideologia o entrambe le cose, per le quali la vita vale zero.