Viviana e Gioele, quando la cronaca oltrepassa il confine
Il coraggio e la maturità di spegnere le telecamere distinguono il buon giornalista dagli sciacalli della spettacolarizzazione del dolore. La scena straziante del papà di Gioele in lacrime sulla bara del figlio non sarebbe dovuta andare in onda. E di Viviana non si dovevano dare dettagli sulle sue condizioni di salute. Esiste ancora la pietas?
Nel circuito mediatico, la tragedia di Viviana Parisi e di suo figlio Gioele è già diventata il Giallo di Caronia. I giornalisti che per giorni hanno seguito le ricerche del bimbo dopo aver registrato la macabra scoperta del corpo senza vita della donna dj, ora stanno raccontando gli sviluppi delle indagini sulle cause della morte dei due.
Fin qui saremmo nei limiti del corretto esercizio del diritto di cronaca, ma purtroppo sta succedendo qualcosa di diverso, che rischia di violare gravemente la deontologia giornalistica.
La cronaca dei fatti sta lentamente lasciando il posto alla spettacolarizzazione del dolore e alla speculazione mediatica a fini di audience. Mentre fino al giorno del ritrovamento dei resti di Gioele i mezzi d’informazione sono stati molto attenti a pixellare le foto del bimbo e a schermarne il volto anche in tv, quando un volontario ha orientato nella direzione giusta le ricerche e si è arrivati al ritrovamento dei resti del suo corpo tutto si è alterato.
Daniele Mondello, padre del piccolo Gioele, è scoppiato a piangere sulla bara nella quale sono stati ricomposti i resti ossei ritrovati nelle campagne di Caronia. Una scena straziante che non sarebbe dovuta andare in onda e che i media non avrebbero dovuto dare in pasto all’opinione pubblica, per rispetto del dolore della famiglia e per una sorta di pietas nei riguardi del bimbo.
Anche le foto di quest’ultimo, in versione integrale e non protetta, stanno circolando senza restrizioni sui media, e neppure questo è un bell’esempio di giornalismo di qualità.
Le ragioni sono di buon senso e di tatto e delicatezza, prima ancora che di natura deontologica. Ma mentre le prime appartengono alla sensibilità individuale, le seconde vanno ricondotte allo statuto della professione giornalistica e dunque devono essere osservate da chi si fregia di essere iscritto all’albo dei giornalisti.
Il valore della dignità umana è sacro anche nel mondo dell’informazione. Senza scomodare la Costituzione italiana, che agli articoli 2 e 3 richiama quel valore e lo qualifica come inviolabile per ogni persona (quindi anche per i giornalisti), c’è l’art.2 della legge professionale n.69/63, che impone ai giornalisti di esercitare il loro sacrosanto diritto di cronaca e di critica nel rispetto delle norme dettate a tutela della personalità altrui. In questo caso va tutelata la dignità di persone che non ci sono più (“la dignità della memoria”, chiarì molti anni fa il Garante della privacy in tragedie simili a quella di Caronia) e dei loro famigliari, che hanno il diritto di vivere nell’intimità il proprio dramma interiore. Anche l’art.8 del Codice deontologico dei giornalisti in materia di privacy è applicabile al caso di Caronia: «Salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, nè si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine». Qui la rilevanza sociale della notizia è un requisito assicurato dal racconto equilibrato del ritrovamento di quei resti, senza l’enfasi posta sulla figura del padre del bimbo e senza l’accanimento sulle scene della sua disperazione.
Il coraggio e la maturità di spegnere le telecamere qualificano il buon giornalista e lo distinguono dagli sciacalli del voyeurismo e della spettacolarizzazione del dolore.
L’episodio purtroppo non è isolato nella storia italiana recente. Uno dei precedenti più eclatanti è quello del delitto di Avetrana, omicidio commesso il 26 agosto 2010 ad Avetrana, in provincia di Taranto, ai danni di una giovane ragazza, Sarah Scazzi. In quell’occasione certo giornalismo diede il peggio di sé, con veri e propri processi mediatici e continue interviste alla cugina della ragazza uccisa, Sabrina Misseri, diventata un personaggio televisivo prima di essere condannata in via definitiva all’ergastolo in quanto considerata colpevole dell’omicidio.
C’è da augurarsi che sul giallo di Caronia non si celebrino altri processi mediatici. Nel frattempo, però, l’analogia con Avetrana risiede nel fatto che l’annuncio del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi fu fatto in diretta durante la trasmissione televisiva “Chi l’ha visto”, condotto da Federica Sciarelli. La conduttrice comunicò in diretta alla mamma della ragazza la tragica notizia, senza un minimo di delicatezza e violando le più elementari norme deontologiche.
Tornando alla drammatica fine di Viviana e Gioele, alcuni giornalisti ieri hanno raccontato con dovizia di particolari le notizie riguardanti presunti disturbi sofferti negli ultimi anni dalla donna, con tanto di referti. Se è giustissimo che questi elementi aiutino la risoluzione del caso, non è affatto opportuno che finiscano nel tritacarne mediatico, alimentando dicerie e considerazioni magari fuorvianti sulla donna scomparsa, a partire dalla scorretta divulgazione di particolari riguardanti il suo stato di salute, quindi di dati sensibili e coperti da privacy. Speriamo che almeno in questo caso prevalga la sobrietà e che l’informazione non debordi dai confini della sua missione.