Viva la pizza, fast food creato col cervello
L'Unesco proclama la pizza Patrimonio dell’Umanità. Più che la pizza-pizza, però, avrebbero dovuto premiare il cervello dei napoletani, che hanno inventato, con essa, per necessità di fame, il fast-food. Purché sia quella originale e non le sue infinite variazioni.
E così finalmente anche la pizza è stata proclamata Patrimonio dell’Umanità. Si suppone si parli della Napoletana classica: mozzarella, pomodoro, basilico. Sì, perché ormai le varianti sono uno sterminio, tante quanta la fantasia degli chef. Più che la pizza-pizza, però, avrebbero dovuto premiare il cervello dei napoletani, che hanno inventato, con essa, il fast-food. Non gli americani, si badi, in quanto hamburger (che sono tedeschi, come dice la stessa parola) e hot-dogs (che sono wurstel, sempre tedeschi) non consentono varianti, se non infinitesimi e di dettaglio (chessò, vuoi la senape o il ketchup?).
Il «popolo più filosofo del mondo» (definizione di Massimo Fini) meritava questo riconoscimento, anche se ormai non si sa più se il napoletano sia quello descritto da Eduardo De Filippo o quello di Gomorra. La pizza ha avuto una diffusione planetaria e anche interplanetaria, visto che la catena americana di pizzerie «Pizza Hut» ha sponsorizzato un lancio della Nasa. Né il termine, diffondendosi, ha subito volgarizzazioni o adattamenti nei vari idiomi: «pizza», e anche il togolese sa di che stiamo parlando.
Abbiamo detto che la pizza ha conosciuto infinite variazioni: alla bismarck (con l’uovo crudo sopra), agli asparagi, al gorgonzola, vegana… Ma qual è la vera pizza, la «verace»? Quella denominata comunemente «napoletana»? Ma anche questa può essere variata. Quand’ero studente universitario e, per risparmiare, si andava in pizzeria, le ragazze settentrionali la pizza la volevano «molto sottile e croccante». Praticamente erano golose del solo condimento, anche se spacciavano quel che mangiavano per «napoletana».
Ma la vera pizza napoletana, a mia memoria, non era affatto così. E l’avevo mangiata non solo a Napoli, bensì anche nell’hinterland, dove in certi locali te la servivano in lunghe teglie e tagliavano le porzioni con le forbici: a Maiori un’insegna recitava «Pizza a metro»; la concorrenza, nel paese vicino, proclamava «Pizza a chilometro». Quanto deve essere spessa, la pizza, per essere «vera»? Bella domanda. Ma ormai solo studi archeologici potrebbero appurare quando è esistita la vera pizza. Sì, perché a questo punto è inutile andare a consumarla a Napoli, corri il rischio di imbatterti in un pizzaiolo bengalese.
C’è un scuola della vera pizza napoletana? Se non c’è dovrebbe esserci, e che rilasci tanto di patente certificata. Nel ristorante milanese dove vado spesso, il pizzaiolo è cinese e fa una pizza così così. Fosse diplomato alla scuola suddetta, la pizza sarebbe doc. Comunque, adesso che la pizza è «patrimonio dell’umanità», chi abusa della ricetta originale può essere accusato davanti al Tribunale Internazionale per crimini contro l’umanità? Bella domanda. E dire che sono stati i pizzaioli partenopei stessi a inaugurare le variazioni. Sì, quando inventarono la «margherita» per omaggiare, con una pizza tricolore, la regina Margherita, moglie di Umberto I, in visita a Napoli. L’inventiva dei napoletani, infine, dovrebbe essere premiata anche per l’originalità dell’invenzione.
La pizza, infatti, non è solo una vivanda. Dice Luciano De Crescenzo che, se i settentrionali hanno inventato l’aperitivo, i napoletani hanno inventato il «chiuditivo», la pizza appunto. Che è un piatto semplicissimo e povero per chi, non avendo altro da mangiare, doveva ingegnarsi per tacitare la fame. Invenzione dettata dalla necessità: pane, amore e fantasia. E ci si lasci immaginare, mentre la si addenta, Sofia Loren che la impasta per strada nel film L’oro di Napoli. Dio salvi la pizza, e benedica chi l’ha inventata (chissà chi è stato…).