Vita, morte e miracoli di un brutto Humandroid
Un robot che diventa uomo in una Johannesburg violentissima del prossimo futuro. E' questa l'ambiziosa idea al centro di Humandroid, la nuova pellicola di fantascienza firmata Neil Bolmkamp. Lo sviluppo è a dir poco superficiale, con una spruzzata di politica e nessuna riflessione su creazione, vita e morte.
S’intitola Humandroid, lo ha diretto Neil Blomkamp, lo interpretano anche nomi eccellenti come Hugh Jackman e Sigourney Weaver, ma è un filmaccio da evitare.
In una Johannesburg del futuro prossimo la criminalità è tale che la polizia si sente perduta finché un geniaccio delle industrie Tetravaal, Deon Wilson, non sfodera la soluzione: agenti dell’ordine completamente robotizzati, detti scout. Hanno una prerogativa. Sono in grado di elaborare una pur parziale autonomia di giudizio. Subito impiegati massicciamente per le strade, gli scout si prendono i proiettili destinati agli uomini e in breve tempo ristabiliscono l’ordine con il plauso dell’universo mondo. Ma c’è un ma, anzi due. Il primo è che gli scout di Wilson suscitano l’invidia di Vincent Moore (l’attore Hugh Jackman), ex militare che non si fida dell’indipendenza degli scout in loro vece proponendo, ma inascoltato, il goffo Moose, uno sparatutto azionato dall’uomo. Il secondo è che Wilson accarezza l’idea di perfezionare i suoli scout con una vera e propria intelligenza artificiale.
Potevate scommetterci e avreste vinto: basta una notte passata a far calcoli trangugiando lattine di Redbull e l’intelligenza artificiale Wilson la realizza sul serio. Corre allora dal boss (l’attrice Sigourney Weaver) con l’invenzione del millennio, lo scout numero 22 dotato d’intelligenza sovraumana, ma questi lo mette alla porta senza nemmeno concedergli un test. Wilson allora s’inalbera, raccatta i suoi circuiti intelligenti e fa di nascosto da sé. Ma una banda di criminali mezzi tossici ‒ Ninja, Yolandi e Amerika ‒, che deve un mucchio di soldi ad altri criminali invasati, e che ovviamente odia sia gli scout sia il suo progettista, rapisce Wilson senza sapere nulla dell’intelligenza artificiale e si ritrova con la meraviglia delle meraviglie al proprio servizio.
La prima metà abbondante della pellicola barcolla tra il ridicolo e il patetico. E così, mentre sprofonda nella poltrona per la vergogna di essere entrato in sala, lo spettatore assiste al maldestro tentativo del trio di masnadieri anfetaminici di allevare il robot senziente come un bambino-bandito, con questi che risponde agl’input caracollando con andatura e gestualità hip hop al costante fracasso di musica house. La parte restante del film mette poi in scena il triangolo tra Yolandi, improvvisatasi “mamma” del robot “battezzato” Chappie (che è il titolo originale della pellicola), Wilson, che cerca di sottrarre il robot al Gatto e alla Volpe come un improbabile Geppetto postmoderno, e lo stesso Chappie che impatta la vita e s’impaurisce. Le batterie che lo alimentano, infatti, stanno per esaurirsi. Morirà. Proprio mentre il padre putativo, Ninja, gli confessa di averlo usato solo per una rapina. Creatore, strilla allora Chappie a Wilson, perché mi hai dato la vita se è per la morte? È l’unico sussulto di autenticità del film: uno crede che lì la storia potrebbe pure farsi intrigante e invece tutto viene risucchiato nel nulla degli effetti speciali, del turpiloquio e del chiasso della colonna sonora.
Lo sforzo maggiore chiesto all’attenzione dello spettatore sono a questo punto le scritte sulle magliette di Yolandi (ne cambia più di una fotomodella, pur vivendo di mezzucci in un lurido buco di Soweto) o le sagome dei tatuaggi che Ninja (che non invidiano nulla alle toilette degli autogrill). Ma è il momento di Moore. Scoperto il segreto di Wilson, ne resta inorridito e mette fuori uso tutti gli scout. La criminalità riprende subito il sopravvento, Wilson si prende invece un proiettile, Chappie è furente, malmena Moore e corre dal suo “creatore” con una idea. Facciamo il backup della coscienza e poi la reimpiantiamo in un corpo nuovo. Tre minuti ed è tutto fatto. Anzi, c’è pure tempo per il bis; e così Chappie, un attimo prima di spegnersi, rinasce. Ma non basta. Nello scontro finale tra il Moose di Moore e tutti i criminali del film messi assieme una pallottola colpisce “mamma” Yolandi: pianti di Ninja e di Chappie, ma lieto fine. Chappie ha fatto il backup anche di lei.
Terribile. Terribile perché non c’è mai nemmeno l’ombra di un pensiero su “vita”, “morte” e “creatore”, che comunque sono le parole più usate nel film. Il tema portante della reincarnazione/clonazione è cacciato in gola alla platea con la banalità di un sorso d’acqua. I “buoni” sono i tagliagole interpretati da Die Antwoord, gruppo musicale sudafricano di elettrorap. E l’unico cattivo, una vera carogna, è guarda caso anche l’unico cristiano del film (invita i colleghi ad andare in chiesa la domenica, si fa il segno della croce e atterrito apostrofa Chappie come “mostro senza Dio”). Un incubo da dimenticare subito, se non fosse per l’autorevolezza che proprio sulle questioni più serie hanno oggi per le masse la pop culture quando va bene e invece il trash quando va male come in questo caso.