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CRONACA

Violenze sessuali in gita, non si faccia finta di nulla

Una brutta storia, trattata con distrazione dai media. Eppure è un segnale allarmante di una emergenza educativa che non possiamo ignorare.

Attualità 13_04_2011
gita scolastica
La notizia è di questi giorni, passata come una normale notizia di cronaca che occupa uno spazio in pagina un giorno e poi nulla più. Eppure è di una gravità enorme e la distrazione con cui guardiamo a questi fatti la dice lunga su cosa regge la nostra società. Il fatto è dunque questo: una scuola media del napoletano è in gita scolastica in Puglia; uno dei ragazzi, 13enne, viene costretto per due giorni da sette suoi coetanei, a praticare rapporti sessuali orali. Tornato dalla gita, il bambino racconta i fatti ai suoi genitori. Questi, a loro volta, li espongono per iscritto ai dirigenti dell’Istituto. Non accade nulla, fino a quando non intervengono i carabinieri: viene fatta una seconda denuncia e aperta un’inchiesta. Gli autori del delitto – sospesi dalla scuola - non sono imputabili, perché hanno meno di 14 anni.  Gli accertamenti sono in corso e sembra riguardino anche gli insegnanti che accompagnavano i 60 bambini in gita: ci si chiede come abbiano fatto a non accorgersi di nulla. Il dirigente scolastico sembra abbia dichiarato – usando un’espressione in voga nell’ambito della politica, quella “corretta” – che in casi del genere “è necessario alzare il livello d’attenzione”. Egli solo sa questo cosa voglia dire.

Sono tanti gli elementi di questa storia che meritano qualche riflessione. I carnefici sono bambini – sì, a tredici anni si è ancora bambini e chiamiamoli così, allora – indotti a vivere in un mondo apparente, irreale, virtuale. Quello delle play-station, dei telefonini di ultima generazione, degli i-pad, di internet e di facebook, della televisione che esalta modelli comportamentali violenti. Tutti strumenti di cui li dotiamo sin dalla più tenera età, preoccupati – noi adulti – solo del fatto che non ci diano fastidio e che occupino in qualche modo il loro tempo, non della loro crescita, intellettuale e umana. Un mondo dove si può tutto e si può, soprattutto, avere tutto; dove non esiste il sacrificio, la responsabilità, il rispetto dell’altro, inteso come specchio della propria anima; dove la realtà è vista come ostacolo all’affermazione di un “io” gigantesco, onnipotente; dove il senso dell’umano si è smarrito e dove vincono comportamenti tribali.

E il mondo dei bambini non è diverso da quello degli adulti. E’ la “palestra” che li abituerà alla giungla della vita, si dice. Come se non potesse esistere, anche qui – su questa terra – una vita fondata sui buoni sentimenti.

Ciascuno di noi si deve sentire responsabile di quel che sta accadendo. Ciascuno di noi è colpevole – anche solo per omissione, per non essersi indignato, per non aver testimoniato, per non aver agito per impedirlo – della scomparsa dei pilastri fondamentali sui quali era costruita la nostra società: la famiglia, la scuola, la parrocchia. Questi - una volta, fino a non molto tempo fa, diciamo fino alla “rivoluzione” del ’68, che li ha devastati – erano luoghi formativi, dove si educava, si formavano le coscienze, si rendevano consapevoli gli esseri umani che pur esiste una diversità tra l’agire perseguendo il bene e quello che deriva da comportamenti che neanche gli animali sono abituati a consumare. 

Ora, la scuola si limita a fornire solo nozioni e si ha anche la pretesa, sin dalle elementari, di dover garantire la crescita egualitaria di tutti. Un retaggio della cultura comunista - che ancora domina la nostra società - che da sempre ha considerato la persona, anche il bambino-persona, un oggetto che deve far parte di una massa indistinta. Una cosa è garantire eguali condizioni di partenza per tutti, altra cosa è valorizzare le peculiarietà e le doti del singolo, sin dalla piu’ tenera età – come si fa nei Paesi civili – ed affrontare anche le problematiche che il bambino può avere, siano queste di natura psicologica o comportamentale. E’ una scuola, la nostra, che insegna, ma non educa. Scrive Platone ne “La Repubblica”: “Nei primi anni l’educazione sia una specie di divertimento; vi sarà così piu’ facile scoprire le inclinazioni naturali”. Ad insegnare può essere in grado chiunque, se ha un minimo di bagaglio tecnico e di esperienza. Educare è molto difficile e richiede una preparazione adeguata, oltre che animo forte e tenace, di questi tempi.

La crisi educativa – che produce essa stessa comportamenti permeati di malvagità -  è drammatica, soprattutto nel Mezzogiorno (non a caso, i protagonisti della storia dell’inizio sono tutti meridionali), anche perché il ceto dirigente è inadeguato nel comprendere che questa deve necessariamente essere la priorità: impegnato com’è solo in lotte di puro potere, non si dota degli strumenti culturali per affrontarla. Né appare ragionevole pensare che la cosiddetta società civile – nella sua maggioranza servile al potere e diseducata al coraggio che richiede l’esercizio della libertà – possa affrontare consapevolmente la realtà che viviamo, per mutarla.

In questo difficile contesto va posta con forza al centro del dibattito, anche politico, l'emergenza educativa, che è anzitutto una crisi degli adulti, incapaci di testimoniare e comunicare le ragioni per cui vale la pena vivere. Ed è per questo che diventa fondamentale una vera evangelizzazione, perché solo Cristo corrisponde pienamente al desiderio di significato che c'è nel cuore di ogni uomo.