Violenza nelle famiglie immigrate, il male invisibile
Le statistiche sulla violenza domestica diventano frammentarie e imprecise quando si parla di famiglie di immigrati. Eppure non si tratta di una realtà nuova. Ce ne parla Ebla Ahmed, dell'associazione Senza Veli sulla Lingua.
In Italia ci sono statistiche su tutto: quanti sono i ricchi e quanti i poveri, quanti possiedono un televisore, quanti un telefonino, quanti leggono il giornale o almeno un libro all’anno e quanti viaggiano nei fine settimana. Non mancano le cifre sulla violenza: stupri, omicidi, borseggi e furti. Eppure, proprio a proposito di aggressioni, ci sono fenomeni macroscopici di cui le statistiche ufficiali parlano poco e in modo impreciso. Sulla violenza sulle donne, su scala nazionale, le statistiche dell’Istat e quelle commissionate dal Ministero delle Pari Opportunità diventano imprecise e incomplete soprattutto su un dato: quanto è diffusa la violenza fra gli immigrati.
Uno studio dell’Osservatorio sulla Violenza Domestica rileva un 30% di vittime immigrate nel territorio del triveneto e della Lombardia orientale (Bergamo e Brescia). Gli sportelli della nuova associazione Senza Veli sulla Lingua (Svsl), che fornisce assistenza alle vittime, rilevano una percentuale leggermente inferiore nell’area di Milano e Monza-Brianza: circa il 20%. Ne abbiamo parlato con la fondatrice di Svsl, l’avvocatessa italo-yemenita Ebla Ahmed. Ha fondato la sua associazione assieme ad Anita Madaluni e Alessio Sacco ed ha appena presentato la sua “creatura” nella sede della Regione Lombardia. E non si dice affatto convinta della precisione di queste cifre. Dal suo punto di vista, i dati sulla violenza diffusa fra immigrati sono troppo bassi rispetto alla realtà quotidiana.
«Ai nostri sportelli, fra le donne che si presentano le immigrate sono circa il 20%, in ogni comune della provincia Monza-Brianza e in quello di Milano» – ci spiega Ebla Ahmed - Nella provincia Monza-Brianza siamo in collaborazione con White Mathilda, l’associazione fondata da Luisa Oliva, che tutela le donne vittime della violenza già da tempo. Ma perché è nata questa collaborazione? Proprio perché anche loro pensavano che fosse strano che solo il 20% delle straniere subisse aggressioni e che questo fenomeno fosse del tutto assente dalle nostre statistiche ufficiali. Come era possibile che l’80% delle vittime fossero italiane, anche nei comuni ad alto tasso di immigrazione? Queste percentuali vogliono dire solo una cosa: che le straniere non si fanno avanti, quasi nessuna denuncia. Tende a tacere, a non denunciare, a non realizzare neppure di subire un sopruso. Noi siamo entrati in collaborazione con White Mathilda proprio per coprire questo buco. Le vittime sono più spinte a denunciare se sanno che c’è un’associazione fondata da una donna musulmana, come me, se sono assistite da mediatori culturali e persone che parlano la loro lingua, che appartengono alla loro stessa etnia. Noi, inoltre, non ci poniamo il limite della cittadinanza e della residenza, abbiamo avvocati esperti in tema di immigrazione e possiamo fornire aiuto, per quanto possiamo, anche a immigrate clandestine, non ancora regolarizzate. Ed è questo uno dei motivi per cui le statistiche effettuate sinora non dicono tutta la verità: molte donne immigrate che subiscono soprusi, in famiglia e fuori, sono clandestine e hanno paura di parlare».
Nelle statistiche Istat, appunto, le vittime sono divise per fascia d’età, per regione, per sesso, per tipo e gravità di aggressione subita. Manca del tutto la loro nazionalità o etnia. «Appunto, è una carenza gravissima – ci spiega Ebla Ahmed – Al Ministero delle Pari Opportunità mi hanno spiegato come sia difficile avere un quadro completo del fenomeno fra immigrati di varie etnie, proprio per i motivi che ho spiegato prima: poche denunce, molta paura a parlare e dati necessariamente incompleti, perché si riferiscono alle sole residenti e cittadine, non alle immigrate nel loro complesso. Parlando con il centro studi Ismu, da cui ho ricevuto gli ultimi dati Istat, i loro ricercatori mi dicono come sia ancora difficile effettuare una statistica sulle vittime suddivise per etnia. È un fenomeno considerato “nuovo” all’alba del 2014. Ed è assurdo, considerando che ormai l’Italia è un Paese multietnico da più di due decenni. Perché, dunque, non cercare nemmeno di capire quale etnia registri più casi di violenza?» Forse per paura di essere accusati di razzismo? «Forse sì, ma sarebbe controproducente, perché gli studi sulla diffusione della violenza nelle varie etnie in tutti i Paesi industrializzati, ci sono in Gran Bretagna, ci sono negli Stati Uniti… Solo sapendo in quale etnia è maggiormente diffuso il problema, ci si può preparare meglio ad affrontarlo, con interventi sociali mirati. Servono anche alle famiglie stesse in cui si sviluppa la violenza, soprattutto a quelle che la considerano una tradizione religiosa, specie se musulmane. Occorre far capire loro che la religione è solo un pretesto».
Già, la cultura di provenienza viene considerata dalla giurisprudenza come un’attenuante… «Ho fondato Senza Veli Sulla Lingua soprattutto per questo motivo. Non si tratta soltanto di abbattere le barriere etniche – tiene a precisare Ebla Ahmed – ma soprattutto questa insopportabile strumentalizzazione: la religione usata come pretesto per commettere atti di violenza. Io sono nata a Firenze da madre italiana cattolica e padre yemenita musulmano. Sono cresciuta a Londra dove mi sono laureata in legge e ho passato quattro anni della mia infanzia nello Yemen. Sono dunque il prodotto di un misto di culture e musulmana di religione. Ho affrontato diversi aspetti scandalosi dei rapporti di coppia, come le violenze, i soprusi e non solo … ma soprattutto il pretesto della religione usata come scusante. Non ne potevo più di continui slogan sull’islam, perché stiamo parlando di gente che commette atti criminali e dice di farlo nel nome della religione. Chi commette un crimine è un delinquente, punto. Chi uccide è un assassino, punto. E se dice di farlo in nome di un qualunque credo sta mentendo, sta strumentalizzando, o peggio ancora, sta facendo politica».