Vietnam, paese di martiri nonostante la "liberazione"
Sono passati 40 anni dalla cosiddetta "liberazione" del Vietnam, avvenuta con la presa di Saigon il 30 aprile 1975. La lunga guerra è conosciuta solo a metà. Si dimentica lo sterminio di classe condotto dai comunisti: 1 milione e 670mila morti. I cattolici come il cardinale Van Thuan, vennero sistematicamente perseguitati.
Il 30 aprile del 1975, l’esercito del Vietnam del Nord entrava in Saigon ponendo fine alla decennale guerra del Vietnam, riunificando il paese e “liberandolo” dal governo del Sud, appoggiato dagli Stati Uniti. Di “liberazione” si parla ancora adesso, nella storiografia ufficiale marxista del regime vietnamita e in non poche rievocazioni italiane. Si dimenticano, volutamente o meno, alcuni “dettagli” di questa riunificazione militare e soprattutto quel che avvenne prima, durante e dopo la guerra nelle aree controllate dal regime comunista filo-sovietico. Il numero di vittime del regime, scorporando i caduti in guerra, è tuttora top secret. Facendo una media di tutte le stime più attendibili, il professor Rudolph Rummel calcolò 1 milione e 670mila persone eliminate dai comunisti, una buona percentuale delle quali è costituita da cristiani cattolici, preti, attivisti, comuni fedeli, ammazzati a freddo per la loro fede.
Del Vietnam si parla tantissimo, ma viene considerata solo la parte di storia che riguarda l’intervento statunitense nel conflitto. Sono documentate le vittime di guerra e dei crimini di guerra provocate dagli americani, con massacri di civili come quello avvenuto nel villaggio di My Lai (347 morti), i civili uccisi nei bombardamenti indiscriminati e quelli assassinati nelle campagne di rastrellamento dei Viet Cong, i guerriglieri comunisti che operavano nel Sud del Vietnam e che si confondevano con i civili. Su queste vittime sono state condotte indagini e i loro carnefici, in alcuni casi (come in quello di My Lai) sono finiti sotto processo. Su questi episodi sono stati versati, giustamente, fiumi di inchiostro e girati chilometri di pellicola, sia durante che dopo il lungo conflitto. Dal 1964, anno del primo intervento statunitense, al 1975, vennero uccisi dagli americani circa 70mila civili innocenti.
La memorialistica e il cinema di Hollywood hanno reso celebre questa parte di conflitto in tutto il mondo, con toni che vanno dall’auto-giustificazione dei combattenti americani (Berretti Verdi del 1968, con John Wayne), al loro pentimento e “redenzione” politica (Nato il 4 luglio del 1989, con Tom Cruise), passando per la sofferenza dei reduci di guerra e prigionia (Il cacciatore, del 1978 con Robert De Niro), l'imbarbarimento dei militari americani al fronte (Platoon, del 1986, con Charlie Sheen) e riflessioni filosofiche (Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, del 1979) sul cuore di tenebra dell’uomo, o altre riflessioni psicologiche (Full Metal Jacket, del 1987, di Stanley Kubrick) sull'uomo in guerra. Sono stati girati infiniti film di denuncia, altrettanti film d’azione, tutti incentrati sulla domanda “perché combattiamo” o “perché abbiamo combattuto” da un punto di vista squisitamente americano. Ma del Vietnam, propriamente detto, non si parla, se non come sfondo, o come pretesto. E’ un fenomeno anomalo, da un punto di vista storico. Sarebbe come parlare della Seconda Guerra Mondiale senza parlare dei tedeschi e del nazismo. E’ come se, di tutta la guerra combattuta dal 1939 al 1945 venissero ricordate solo le esperienze, positive o negative che siano, dei combattenti alleati, denunciandone i crimini (i bombardamenti a tappeto) e dibattendo per decenni sulla moralità o meno della loro guerra, ma senza mai nominare i campi di sterminio nazisti. Sarebbe giustissimo citare i crimini degli Alleati (magari anche di più di quanto non si sia fatto finora), ma sarebbe incredibile e scandaloso non nominare quelli commessi dai nazisti.
Il Vietnam, prima, durante e dopo la guerra con gli Stati Uniti, ha avuto eccome i suoi campi di sterminio, chiamati campi di “rieducazione”, in cui perirono centinaia di migliaia di persone innocenti. E furono solo una piccola parte della persecuzione, perché nella stragrande maggioranza dei casi le vittime venivano assassinate sul posto, in pubblico, nei loro villaggi natii. La mattanza del comunismo vietnamita ebbe inizio immediatamente dopo la liberazione del paese dal dominio giapponese. Il partito comunista delle milizie Vietminh, guidato da Ho Chi Minh, iniziò fin dal 1945 ad assassinare preti, missionari, esponenti di partiti rivali, anche comunisti non allineati con lo stalinismo. Le purghe di questo periodo, condotte dietro il pretesto di combattere i francesi (che avevano ripristinato il loro dominio coloniale dopo la cacciata dei giapponesi) non furono uno scherzo, riguardarono circa 5mila cittadini vietnamiti. Il peggio, però, incominciò dopo il 1953, quando i comunisti, una volta scacciati i francesi, presero possesso di tutto il Nord del Vietnam. A questo punto lanciarono la loro seconda ondata di persecuzione, questa volta contro intere “classi nemiche”, senza distinguere la persona dalla sua collettività di appartenenza. Con un macabro censimento, nel 1953 tutta la popolazione contadina venne divisa in 9 categorie: tre "classi", ciascuna delle quali era divisa a sua volta in “livelli”, a seconda della terra posseduta e della pur piccola ricchezza accumulata. Inizialmente i quadri e i dirigenti comunisti vietnamiti istigarono i contadini della “classe inferiore” ad uccidere quelli della “classe superiore”, detti “signori terrieri”. Questi ultimi vennero uccisi dopo processi sommari, da squadre volanti che si spostavano di villaggio in villaggio, istigando la gente o facendo “giustizia” sommaria nel nome della lotta di classe. Molti furono indotti al suicidio, poiché isolati da tutto il loro villaggio, che era obbligato a non avere più contatti con la vittima. Ma ben presto i dirigenti comunisti si resero conto che c’erano troppo pochi morti, con questo metodo. Poiché il Politbjuro aveva calcolato, in base a criteri “scientifici”, che il 5% dei signori terrieri deteneva il 95% di tutta la terra (stime simili, in modo preoccupante, a certe statistiche in voga ancora oggi, anche in Italia) si decise di ammazzare il 5% delle persone in ogni villaggio. Si crearono nuovi reati, come “mentalità da signore terriero” e si istigarono le masse al linciaggio, non solo contro le classi più alte, ma anche le medie. Il cristianesimo venne perseguitato ufficialmente e sradicato dalle campagne. Quando, per un anno, dal 1954 al 1955, venne aperto un canale di emigrazione legale dal Nord al Sud del Vietnam, circa 600mila cristiani, soprattutto cattolici, poterono fuggire nel Sud.
Purtroppo per questi profughi, il regime guidato da Ho Chi Minh non si accontentava di stabilire il controllo sui territori del Nord. Nel 1956 iniziò un’intensa campagna di attentati e di rapimenti nel Sud. Anche in questo caso, preti, missionari e attivisti cattolici furono fra i primissimi ad essere colpiti. I Viet Cong, come erano chiamati i guerriglieri comunisti che operavano nel Sud, colpivano soprattutto i leader politici e religiosi locali più virtuosi, coloro che potevano ispirare l’esempio. Un leader corrotto faceva il loro gioco, perché avrebbe spinto le masse a unirsi al progetto comunista, ma i leader più virtuosi, come i preti e gli attivisti cristiani più onesti, erano colpevoli di distrarre le masse dalla rivoluzione. Questa campagna di terrore nel Sud divenne una vera e propria guerra nel 1959, quando venne inaugurata la prima pista segreta (B59) della guerriglia, poi passata alla storia come Pista di Ho Chi Minh. Nel 1964 la violenza nel Sud era a tal punto dilagata che i Viet Cong iniziavano ad entrare nei villaggi e nelle città con le liste nere di persone da ammazzare, rapire, torturare. E’ in questo contesto che si inserisce l’intervento militare statunitense e ha inizio la guerra che tutti conosciamo.
Ma ci fu anche un dopo-guerra, altrettanto sconosciuto. Il periodo successivo alla “liberazione” di 40 anni fa, è tristemente celebre in Vietnam per due simboli: i campi di rieducazione e i boat people. Questi ultimi furono i vietnamiti che fuggirono dalla persecuzione, circa 1 milione e mezzo, 250mila dei quali morirono durante l’attraversata del Mar Cinese Meridionale, vittime della natura, delle intemperie e della violenza dei pirati tailandesi e cambogiani. Nei campi, invece, vennero internati altri 2 milioni e mezzo di prigionieri politici, costretti ad estenuanti lavori forzati, alla tortura psicologica della rieducazione e sottoposti a torture ed esecuzioni sommarie per ogni minima infrazione. Di questi 2 milioni e mezzo di vietnamiti, almeno 95mila non fecero più ritorno a casa. Si tratta solo di un aspetto della persecuzione. Dal 1945 fino alla fine degli anni '80, una stima anche prudente delle vittime di regime parla, come abbiamo visto, di 1 milione e 670mila morti. Un sopravvissuto dei gulag vietnamiti fu il cardinale Nguyen Van Thuan, che continuò, in prigionia, a mantenere salda la sua fede cattolica, tenendo messa tutti i giorni, consacrando briciole di pane, una goccia d’acqua e una di vino (fattogli avere dai parenti, mimetizzato da medicina) sul palmo della mano usato a mo’ di calice. Il cardinale Van Thuan, che ispirò rispetto anche nelle guardie carcerarie più crudeli, per la sua grande umanità, morì in esilio a Roma il 16 settembre 2002. Molti altri, internati assieme a lui, non sono sopravvissuti alla prigionia e alle torture. San Giovanni Paolo II li fece tutti santi martiri nel 1988, assieme alle vittime di tutte le persecuzioni precedenti, risalendo fino al XVI Secolo. Il Vietnam è e resta un popolo di martiri, nonostante la “liberazione”.