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QUARANT'ANNI DOPO

Vietnam, l'amarcord di Colombo riesce solo a metà

Quant’anni fa, il 30 aprile 1975, Saigon cadeva sotto l’assedio delle truppe comuniste e dei guerriglieri vietcong. Finiva così una sanguinosa guerra diventata il “simbolo” dello strapotere dell’imperialismo Usa. Lo ricorda Furio Colombo, ai tempi reporter tra New York e il Vietnam. Ma il suo è un amarcord a metà.

Politica 28_04_2015
Furio Colombo

Quant’anni fa, il 30 aprile 1975 Saigon, capitale del Vietnam del Sud, cadeva sotto l’assedio delle truppe comuniste del Nord e dai guerriglieri vietcong. Finiva così una sanguinosa guerra durata 15 anni, contro il governo sostenuto militarmente dagli Stati Uniti. Una guerra diventata il “simbolo” di ogni resistenza allo strapotere dell’imperialismo americano. La celebrazione del 40esimo di quell’avvenimento è già diventata l’occasione per riaccendere i fuochi di un odio mai sopito, soprattutto da parte di chi ai tempi vestiva i panni ruvidi del giovane intellettuale no war. 

In America ha vissuto negli anni giusti, quando la migliore gioventù, tutta “yankee go home” e “giù le mani dal Vietnam” sognava romantiche rivoluzioni asiatiche e caraibiche. Dunque, chi meglio di Furio Colombo, giornalista di talento, gran conoscitore del mondo alternativo newyorkese e very kennediano, poteva essere incaricato a celebrare la prima grande sconfitta dell’impero americano? Il suo curriculum è alto trenta piani: fu corrispondente de La Stampa e Repubblica dagli Stati Uniti. Direttore dell’Unità, senatore dell’Ulivo, ex fan di Mani Pulite, ora è pluripensionato con medaglia al merito della famiglia Agnelli. Come presidente di Fiat America, stava in un elegantissimo ufficio a Park Avenue, stanza d'angolo con vista su New York.  Anni felici, quelli americani di mister Colombo. Molti l’hanno poi conosciuto in tv, ospite degli anchorman della sinistra di piazza e di salotto: boccuccia serrata, dizione perfetta, ciocche dai riflessi azzurrini e aria aristocratica di chi paga regolarmente le quote al club dei migliori. 

Ecco, a uno così, il Fatto Quoitidiano ha affidato l’amarcord vietnamita: “C’era una volta il Vietnam dentro al cuore dell’America”: titolo che regge due paginate fitte fitte del redivivo Furio corrispondente dal fronte della “sporca guerra”. Due pagine di bella e raffinata scrittura, di episodi, atmosfere e di indimenticabili incontri con i grandi nomi che hanno fatto la storia dell’altra America: Norman Maile, Joseph Heller, Allen Ginzberg, Sidney Lumet, Leonard Bernstein, il direttore d’orchestra che invitava le Black Panthers ai suoi party. E poi le marce contro la guerra, gli studenti di Berkeley, le cartoline di arruolamento bruciate in piazza. É un Colombo tutto where have all the flowers gone e Joan Baez, che dà del tu a Martin Luther King e va con Luciano Berio, Mailer e Myriam Makeba a fare catene umane intorno al Pentagono. Che  tempi e che nostalgia…

Si fossero fermate qui, quelle due pagine di memory e stracult potevano ben essere considerate simpatico diversivo di un past president in vena di ricordi. Ma il fatto che è che il servente Colombo non rinuncia mai a impartire la sua lezioncina da uomo di mondo che la sa lunga e ne ha passati di tutti i colori. Lui era dalla parte dei vietcong, ma questo non lo dice. Racconta invece più volentieri di essere stato tra quelli che contribuirono a fare nascere un giornalismo finalmente libero dalla politica e dalle veline del Pentagono. Un po’ come i reporter della Cbs che filmarono la strage perpetrata dai marines Usa nel villaggio di My Lai: fu la scintilla dell’indignazione mediatica e del popolo americano che costrinsero Washington alla resa. Da allora nulla è stato più come prima. Dopo il Vietnam, nessuna guerra è mai più stata documentata e narrata «con un continuo reporting, come atto di libertà al servizio dei cittadini». Dopo la caduta di Saigon, è tornato il giornalismo embedded , quello delle veline e del reportage passato alla censura dei vertici militari e autorizzato dalla Casa Bianca. 

C’è del vero in quel che scrive Colombo, così come quando, giunto per vie avventurose a Hanoi, racconta le pressioni che i comunisti gli fecero per manipolare le testimonianze dei tre piloti americani fatti prigionieri dai vietcong. Ma quel che Colombo non dice è che Saigon non fu affatto liberata, che il Vietnam unificato dal Nord comunista divenne ben presto un sola  e grande prigione. Pochi degli inviati ebbero poi l’onestà e l’amore per la verità di Tiziano Terzani, forse il più grande dei giornalisti italiani che documentarono le guerre del Sud Est asiatico, di riconoscere l’inganno in cui erano caduti e denunciare gli orrori dei nuovi dittatori comunisti. Quel coraggio della verità che ancora oggi manca ai raffinati ex ribelli che come Colombo continuano, anche quarant’anni dopo, a raccontare la storia solo metà.