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STORIA

Vicenda istriana e versione slovena

La vicenda delle foibe, di cui abbiamo parlato recentemente, ha dei precedenti che non vanno dimenticati. Perché la storia è complessa.

Attualità 26_02_2012
Esodo istriano

Nelle settimane scorse abbiamo ricordato la vicenda delle foibe, ovvero le cavità carsiche dove la polizia comunista di Tito, alla fine della Seconda Guerra mondiale, fece sparire migliaia di oppositori (in gran parte italiani) che ostacolavano i progetti espansionistici in Istria del dittatore jugoslavo. Oggi pubblichiamo un contributo di un sacerdote sloveno che, senza negare i massacri titini, cerca però di spiegare la vicenda in un contesto più ampio, mettendo in rilievo la complessità della storia e delle difficili relazioni tra i diversi popoli presenti nella regione.


Parlando di eventi storici, soprattutto se tragici, bisogna sempre rendersi conto, come ognuna delle parti abbia una propria interpretazione dei fatti accaduti. Spesso la verità si nasconde sotto ampi strati di cenere ideologica che bisogna cercare di togliere, cercando di essere oggettivi, per quanto possibile. Ecco, la storia dell'esodo dalmata-istriano e delle foibe è molto complessa, come ci dice la professoressa Liliana Ferrari, parlando del libro del professor Raoul Pupo, 'Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l'esilio' (BUR, 2006). «Ciò che accade in Istria dal 1945 per essere capito ha bisogno di essere inquadrato in un contesto molto ampio, in un tempo più lungo: a partire dalle "persecuzioni". Si tratta di un accenno, quest’ultimo, che può essere letto in due modi, a seconda di ciò che evoca il termine "persecuzioni": in termini di attore ed in termini di oggetto».

Perché un esodo lungo? «Per il tempo in cui si colloca. Un tempo cioè che comincia con il primo dopoguerra e attraversa il fascismo e la guerra. Qui la vicenda incrocia il grande teatro degli equilibri internazionali, dove gli obiettivi jugoslavi si incrociano con gli equilibri tra le grandi potenze, prima, durante e dopo la conferenza per la pace». Un lungo periodo, durante il quale è successo di tutto. Ma si potrebbe anche allungarlo ulteriormente, perché le tensioni tra le varie nazionalità in queste zone comincia già nel secolo XIX. Ma, andiamo avanti con le parole della storica triestina: «Di questa vicenda, che coinvolge oltre 250mila persone, la cui partenza cambia i connotati di un’intera regione, gli storici a lungo non si sono occupati. Relativamente a lungo, almeno, confrontando questa con altre vicende del passato recente. Hanno cominciato a metterci le mani alla metà degli anni Ottanta, in un contesto che, a dire il vero, non incoraggiava ad entrare nella questione».

Eh, già, il comunismo (o socialismo, come preferivano chiamarlo da noi, in Jugoslavia, per mascherarlo un po') era troppo simpatico e una questione così piccante non si poteva toccare, perché, come dice Pupo, si trattava di un «disinteresse della politica» negli anni in cui «chiusa la questione di Trieste, si puntava alla distensione dei rapporti». Questo disinteresse però, scrive ancora Pupo, «non comportava di per sé un blocco della ricerca storica. Semplicemente, al di fuori della medesima area di frontiera l’ambiente era del tutto sfavorevole alla ricezione delle tematiche legate al confine orientale». E siamo di fronte ad un fattore importantissimo, perché una delle «caratteristiche fondamentali della storia della frontiera giuliana» è di «aver favorito la creazione di miti politici». Come dice la Ferrari, infatti: «Trieste e la Venezia Giulia sono zone-simbolo del discorso politico a livello nazionale. In qualche misura lo sono state anche per la Jugoslavia».

Così l'esodo è diventato oggetto di una «micidiale combinazione di rimozioni reciproche e selettive, spesso accompagnate da un uso politico della storia giuliana, e soprattutto delle vicende più dolorose dell’italianità adriatica, a fini di legittimazione». Soltanto dagli anni Novanta, «si è fatta sentire anche l'esigenza di uno studio scientificamente fondato», come anche l'esigenza di inserire la ricostruzione dei fatti in un «ragionamento più generale riguardante gli spostamenti di popolazione avvenuti al confine orientale d’Italia nei due dopoguerra».

L'analisi del professor Pupo parte dalle caratteristiche del popolamento della Venezia Giulia, già Litorale austriaco (Österreichisches Küstenland), dopo la prima guerra mondiale, e più complessivamente dagli effetti che l’ingresso nel Regno d’Italia determina nel territorio. Conseguenze economiche – la crisi del porto di Trieste, prevedibile data la sua strutturale dipendenza dall’area danubiana – e, per tutta la regione, conseguenze politico-sociali. A Trieste ed in Istria la presenza fascista è precoce; precoce dunque l’avvio della politica che il partito fascista svilupperà nei confronti delle popolazioni slave una volta giunto al potere, ereditando e amplificando preesistenti tematiche liberal-nazionali e poi irredentiste.

Fronteggiare la presenza slava, ed espellerne i punti di riferimento in attesa di assimilare la massa – dice la professoressa Ferrari - è l’obiettivo dichiarato. Alla base di tale politica vi è infatti la convinzione che le masse slave, una volta private della loro classe dirigente, acquisiranno facilmente l’identità nazionale italiana. Lo stesso discorso vale anche per il Goriziano, dove la popolazione maggioritaria era quella slovena (intorno al 70% della popolazione), ma già gli sloveni della Provincia di Udine (soprattutto gli sloveni della Slavia veneta) hanno potuto sperimentare, dal 1866 in poi, cosa significhi l'italianizzazione forzata; con l'avvento del fascismo le cose sono soltanto peggiorate, e anche di molto.

In Istria il tutto comincia con l'incendio del Narodni Dom di Trieste nel 1920. Quest'edificio era un simbolo della presenza slovena nella città giuliana, perché centro di tutta l'attività culturale. «Segue la persecuzione – perché di questo si è trattato – una persecuzione durata un ventennio, che produce comprensibili concrezioni di rancore e fa crescere il consenso di sloveni e croati attorno alla convinzione che sia necessaria, come condizione di esistenza, una futura aggregazione alla Jugoslavia, qualunque sia il volto politico che questa presenterà». Molti varcano il confine italo-iugoslavo già fra le due guerre. Parliamo di un numero che supera le 100mila unità. E qui siamo al primo esodo, che non è quello italiano, ma quello delle popolazioni slave del Friuli Venezia Giulia (la Venezia Giulia è un neologismo, inventato dopo la grande guerra). Questi esuli si inseriscono abbastanza bene nella società iugoslava e «hanno proprie organizzazioni ed un’attività politica, nonché contatti con connazionali nel Litorale, che reagiscono alla snazionalizzazione con l’attività cospirativa e talvolta con atti di terrorismo - l'organizzazione TIGR (dalle inizialidi Trst (Trieste), Istra (Istria), Gorica (Gorizia), Reka (Fiume)), condannati dal tribunale speciale nel 1930 e nel 1941 con conseguente fucilazione di alcuni dei capi».

A questo va aggiunto ciò che Boris Pahor descrive benissimo nel libro Qui è proibito parlare. Il clero, sloveno e croato, l'8 Gennaio 1920 forma lo 'Zbor sve?enikov svetega Pavla' (Unione dei sacerdoti di san Paolo) per cercare di salvare la lingua e l'identità del popolo sloveno e croato. Tra i maggiori esponenti: monsignor Ivan Trinko (arcidiocesi di Udine), Virgil Š?ek (diocesi di Trieste-Capodistria) e altri. C'era anche una sezione croata, con centro a Pisino. Il regime fascista infatti cerca di sradicare la lingua slovena e croata anche dalle chiese, proibendo di cantare e pregare in entrambe le lingue. In pratica, i sacerdoti sostituiscono i maestri sloveni, sostituiti nelle scuole da quelli italiani. Ma, nella lotta contro il regime ci sono anche dei vescovi – soprattutto Andrea Karlin e Luigi Fogar a Trieste e Francesco Borgia Sedej a Gorizia. Karlin viene cacciato già nel 1919 (gli succede Angelo Bartolomasi, ex vescovo militare) e dopo un periodo a Roma, diviene vescovo a Maribor. Fogar deve ritirarsi su pressioni del regime nel 1936 – gli succede l'italiano di Rovigno (in Istria) Antonio Santin. A Gorizia Sedej viene costretto a rinunciare all'incarico di arcivescovo.

I maestri sloveni, come detto, vengono sostituiti con maestri italiani – gli uni vanno al centro-sud italiano, gli altri vengono nelle zone con popolazione slava. Arrivano anche altri impiegati statali italiani (nel mio paese per esempio ogni anno vengono a visitarci gli amici di Tuoro sul Trasimeno in Umbria, poiché una di loro ha vissuto nel nostro villaggio, perché suo padre lavorava alla stazione ferroviaria). Alla fine del conflitto sono intorno ai 40 mila, e tutti tornano in Italia durante il periodo esilico.

E’ importante raccontare queste cose per poter capire meglio il fenomeno dell'esodo. Ma continuiamo con il libro di Pupo che confronta la politica delle due ideologie: «Vi è un aspetto specifico della questione sul quale vale la pena di soffermarsi: il confronto tra gli effetti delle politiche tanto dure quanto velleitarie attuate dal regime fascista e quelli delle politiche applicate invece nel secondo dopoguerra da parte dello Stato jugoslavo, che portarono alla scomparsa quasi totale del gruppo nazionale italiano». Mentre il fascismo «nel caso specifico, parlava di “bonifica etnica” ma non riuscì ad attuarla, lo stato jugoslavo proclamava la “fratellanza” tra i popoli e finì per espellere dalla sua terra di origine un gruppo nazionale quasi al completo». Questo accade in Istria, dove il regime di Tito riesce ad «insinuarsi in tutte le pieghe della società italiana […], disarticolandola completamente fino alla sua distruzione, una volta verificata l’impossibilità di rimodellarla nei termini desiderati».