Via dall'Afghanistan, via dall'Iraq. Usa meno credibili
Trump mantiene la promessa di terminare le "guerre infinite" e annuncia il dimezzamento del contingente militare americano in Afghanistan e la riduzione di quello in Iraq. Grave la situazione sul terreno in entrambi i teatri di conflitto. In Afghanistan i talebani cantano vittoria, in Iraq gli sciiti rompono la tregua. E in Siria, il rappresentante speciale Jeffrey fa un'ammissione scandalosa
Donald Trump continua a prendere iniziative da presidente e “comandante in capo” ordinando la riduzione ulteriore delle truppe in Afghanistan e Iraq che passeranno rispettivamente da 4.500 a 2.500 e da 3 mila a 2.500 effettivi a partire dal 15 gennaio 2021.
Lo ha annunciato il Segretario alla Difesa ad interim Christopher Miller, che da pochi giorni Trump ha posto al vertice del Pentagono in sostituzione di Mark Esper, giudicato da tempo ostile alla politica dei ritiri militari dalle aree di guerra varata dalla Casa Bianca. Miller ha spiegato che Washington intende mettere fine ad una guerra che dura “da una generazione”: gli Usa sono in effetti presenti militarmente in Afghanistan dall’ottobre 2001, quando prese il via l’operazione “Enduring Freedom”, e in Iraq dal marzo 2003, quando prese il via l’operazione “Iraqi Freedom” che abbattè il regime di Saddam Hussein
Miller ha confermato che il ritiro di 2mila militari dall’Afghanistan e 500 dall'Iraq verrà completato prima che Trump debba (eventualmente) cedere la Casa Bianca a Joe Biden, il 20 gennaio e ha aggiunto di aver parlato con gli alleati di Washington, compresa la Nato, e con il governo afghano. L’accelerazione del ritiro americano imporrà passi analoghi anche agli alleati Nato europei che ancora schierano contingenti nel paese asiatico. Il governo tedesco si è detto “molto preoccupato” e secondo indiscrezioni si appresterebbe a ritirare i suoi 1.300 militari (il secondo contingente alleato) dal nord dell’Afghanistan in concomitanza col ritiro statunitense. Il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini ha detto di averne discusso con il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, aggiungendo che verrà deciso nella prossima riunione ministeriale Nato, in dicembre, se mantenere o meno nel 2021 una presenza militare alleata in Afghanistan. “Dalla conversazione e di questa mattina con il segretario generale della Nato, dalle conversazioni avute ieri con i partner americani e anche dalle valutazioni che sono convenute alla nostra attenzione da parte del generale Miller, comandante delle truppe in Afghanistan, ci è stata data assicurazione che gli Stati Uniti ritengono di mantenere inalterata la presenza delle strutture abilitanti, soprattutto dal punto di vista dell’aviazione ad ala fissa e ala rotante e di mantenere inalterato il sostegno di strutture e assetti provenienti al di fuori dell’ Afghanistan, come ad esempio la base americana in Qatar” ha detto il ministro. Anche Praga ha annunciato un ridimensionamento delle sue forze, attualmente 390 militari in Afghanistan e 110 in Iraq (questi ultimi ridotti a 80 da gennaio).
Trump aveva promesso di mettere a fine alle cosiddette “guerre infinite” ma il comando militare statunitense a Kabul ritiene pericolosamente inadeguata la presenza di soli 2.500 militari per fornire il supporto necessario alle forze afghane, già gravemente indebolite negli ultimi anni da elevati tassi di perdite e diserzioni. Non è un caso che i talebani abbiano accolto con entusiasmo l’annuncio del ritiro statunitense. “E’ un passo per i popoli di entrambi i Paesi”, ha dichiarato alla France Presse il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid.
In Iraq invece il governo di Baghdad ha confermato che gli Stati Uniti “hanno attuato passi per la riduzione delle proprie forze in Iraq” e che “le forze che resteranno non sono reparti da combattimento”, come ha detto il ministro degli Esteri, Fuad Hussein. In Iraq gli americani devono fronteggiare non solo la minaccia delle milizie dello Stato Islamico, ma anche quella delle milizie sciite filo iraniane delle Forze di Mobilitazione Popolare, ben determinate a far pagare agli USA il conto per l’uccisione del generale Qassem Soleimani, comandante dei pasdaran eliminato all’inizio dell’anno da un attacco americano all’aeroporto di Baghdad. Una delle più influenti milizie irachene filo-iraniane, Asaib Ahl al Haqq, ha ieri annunciato la fine della tregua contro le forze Usa presenti in Iraq lamentano il mancato ritiro totale delle forze USA dal paese arabo.
Il mese scorso Washington aveva minacciato di interrompere il programma di sostegno militare e logistico alle forze armate irachene e di ritirare il personale diplomatico dal paese se il governo di Baghdad non avesse messo un freno agli attacchi delle milizie sciite. Le brigate Asaib Ahl al Haqq e altre milizie avevano dichiarato una tregua, chiedendo però l'immediato ritiro totale, non parziale, delle truppe Usa dal territorio nazionale. La progressiva riduzione delle truppe alleate in Iraq, in atto ormai da un oltre un anno, sta contribuendo al ritorno in forze dello Stato Islamico, sempre più attivo nel nord e nell’ovest del paese. Ieri il comando militare di Baghdad ha reso noto di aver ucciso 16 affiliati allo Stato Islamico nel corso di una "grande operazione militare" condotta nella provincia di Kirkuk.
Non è chiaro se verranno ritirate truppe anche dalla Siria dove il numero di militari americani schierati nelle regioni orientali è incerto. Su questo fronte si sono del resto concentrati molti dei dissapori tra Casa Bianca e Pentagono protrattisi per tutta la durata dell’’Amministrazione Trump, incentrati sui ritiri voluti dal presidente ma ostacolati dai comandi militari e da esponenti di Dipartimento di Stato e Pentagono. Il 14 novembre James Jeffrey, rappresentante speciale uscente degli Stati Uniti in Siria, ha clamorosamente ammesso di aver tenuto nascosto agli alti funzionari dell’amministrazione di Donald Trump il numero esatto di militari dispiegati in Siria, teatro operativo da cui Trump ha dichiarato il ritiro di gran parte delle forze nel 2019. "Facevamo dei giochetti per non chiarire alla nostra leadership quante truppe avevamo sul posto”, ha detto Jeffrey in un’intervista alla testata Defence One citata dall’Agenzia Nova. Jeffrey ha detto che il numero di soldati statunitensi rimasti in Siria è “molto più’ alto” dei 200 soldati che Trump ha accettato di lasciare. “Quale ritiro della Siria? Non c’è mai stato un ritiro della Siria”, ha detto l’alto funzionario esprimendo soddisfazione per essere riuscito ad aggirare le decisioni della Casa Bianca. Secondo indiscrezioni i militari americani presenti ancor oggi in Siria sarebbero circa un migliaio ma le dichiarazioni di Jeffrey colpiscono sia perché il funzionario del Dipartimento di Stato ha ammesso di aver mentito al presidente e di averlo raggirato attuando iniziative opposte agli ordini ricevuti, sia perchè ne parla oggi apertamente ai media quasi facendosene vanto.
In ogni caso, tra ritiri annunciati, bugie e conflitti a tratti comici tra Casa Bianca e una vasta gamma di avversari tra i quali vi sono il cosiddetto “Deep State”, i “Big Five” del web e dell’hi-tech e la stragrande maggioranza dei media, la credibilità politica e militare degli USA presso i propri partner e alleati ne esce profondamente ridimensionata.