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GUERRA INFINITA

Via dall'Afghanistan. Gli Usa vogliono andarsene in fretta

Secondo fonti dell'amministrazione Trump citate dal Washington Post, gli Usa vogliono dimezzare la consistenza del loro contingente in Afghanistan addirittura prima di raggiungere un accordo con i Talebani per il futuro del Paese. Una mossa elettorale che però non aiuta la stabilità del Paese.

Esteri 04_08_2019
Marine americani in Afghanistan

L’accordo con i Talebani non è stato ancora messo a punto, ma gli Stati Uniti sarebbero già pronti a ritirare quasi la metà dei 15mila militari che ancora schierano nel paese centro-asiatico.

Lo rivelano fonti dell’Amministrazione Usa citate dal Washington Post. L' accordo, che impone ai Talebani di non accogliere “gruppi terroristici” sul territorio afghano e di avviare negoziati con il governo di Kabul per arrivare ad un accordo di pace più ampio, potrebbe ridurre il numero dei militari dai 14mila attuali a 8.000-9.000 unità.

In termini politici l’annuncio della disponibilità ad una frettolosa riduzione delle truppe galvanizzerà i Talebani dimostrando loro che Washington ha davvero una gran fretta di disimpegnarsi dall’Afghanistan dopo 18 anni di guerra. In termini militari quanto riportato dal Washington Post significa ridurre al lumicino le capacità di intervento sul campo delle forze statunitensi e depotenziare ulteriormente le capacità di addestrare e affiancare le forze di Kabul, sempre più logorate dalla guerra d’attrito attuata dai Talebani nei confronti dei reparti militari e di polizia governativi.

Secondo le fonti citate dal quotidiano statunitense, un accordo potrebbe essere perfezionato addirittura prima delle elezioni presidenziali afghane di settembre. Ci starebbe lavorando Zalmay Khalilzad, il diplomatico americano di origini afghane inviato Usa per i negoziati di Doha con i Talebani.

La proposta, aggiunge il quotidiano, potrebbe scontrarsi con i dubbi sulla reale affidabilità dei Talebani e sui meccanismi di verifica del rispetto dell'accordo da parte delle milizie jihadiste ma un’intesa (anche a tutti i costi?)  sembra essere oggi un obiettivo prioritario per Donald Trump, che punta a rivendicare il rimpatrio delle truppe da Kabul nella campagna elettorale in cui cerca un secondo mandato presidenziale, condiviso ampiamente anche dai Democratici ma forse un po’ meno da alcuni ambienti del Pentagono che temono il rapido tracollo delle istituzioni di Kabul (rese ancor più fragili dal ritiro degli USA e degli alleati) e il ritorno al potere dei Talebani.

Le notizie degli ultimi giorni non sembrano deporre in favore di un rallentamento delle ostilità. Il 30 luglio Kabul ha reso noto che almeno 52 Talebani sarebbero rimasti uccisi in attacchi via aria e terra sferrati dalle forze armate afghane nella provincia di Baghlan. Il 31 luglio un ordigno esplosivo improvvisato (IED) talebano ha ucciso 35 civili che si trovavano a bordo di un autobus sulla “ring road tra Kandahar e Herat. L'ordigno piazzato sull' autostrada che da Kandahar porta a Herat è esploso nella provincia di Farah (una delle quattro province occidentali in cui è attivo il contingente italiano di 700 militari basati a Herat) al passaggio di un autobus civile. Il bilancio provvisorio è di 35 morti e 23 feriti molti dei quali in gravi condizioni. Il portavoce del governatore della provincia di Farah, Farooq Barakzai, ha confermato il numero delle vittime sottolineando che potrebbe salire ulteriormente. "Decine di passeggeri, soprattutto donne e bambini, sono rimasti uccisi", ha detto Barakzai. I Talebani non hanno rivendicato l'attacco, ma anche secondo il portavoce del presidente afghano – Sediq Sediqqi - si è trattato di una loro bomba e del resto in quel settore i Talebani sono gli unici a utilizzare IED.  

L' attentato aumenta le tensioni intorno all’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sulle vittime civili in Afghanistan che da un lato fotografa nei primi sei mesi del 2019 un calo di quasi il 30% delle vittime di guerra rispetto allo stesso periodo del 2018 e dall’altro attribuisce la responsabilità di “danni collaterali” più alle forze alleate e governative che ai Talebani. Nei primi sei mesi del 2019, secondo la missione Onu nel Paese asiatico (Unama) tra gennaio e giugno 1.366 civili sono stati uccisi e 2.446 feriti: numero definito "scioccante e inaccettabile". Benché nel complesso gli insorti abbiano provocato il 52% delle vittime civili tra morti e feriti (38% attribuito ai Talebani, 11% a Stato Islamico del Khorasan e il 3% a gruppi non identificati), le forze governative afghane e alleate avrebbero ucciso più civili di quanto abbiano fatto gli insorti, denuncia il rapporto, in dettaglio 717 contro 531 morti.

Gli scontri terrestri restano la prima causa del coinvolgimento dei civili nel conflitto, (33 per cento, il 16% in meno rispetto alla prima metà del 2018), seguito dall’uso di ordigni esplosivi improvvisati (IED) che ha provocato il 28% delle vittime civili e dai raid aerei (14%). Le vittime civili provocate dagli insorti (531 morti e 1.437 feriti) sono calate rispetto al primo semestre 2018 del 43% secondo l’Unama grazie alla riduzione degli attentati e al più limitato impiego di IED (soprattutto al calo delle attività dello Stato Islamico del Korashan).

Allo stesso tempo i civili colpiti dalle forze governative e alleate sarebbero aumentati del 31% con 717 morti e 680 feriti che rappresentano il 32% del totale dei civili colpiti: l’Unama attribuisce la responsabilità per il 18% alle forze afghane, per il 12% alle forze alleate (USA) e per un 2% a forze pro-governative indeterminate. 

Principale causa di questo incremento sarebbe l’intensificarsi dei raid aerei (più 39%) compiuti dai caccia Usa e dai velivoli antiguerriglia e dagli elicotteri afghani, che avrebbero ucciso 363 persone, inclusi 89 bambini, ferendone 156 (61 bambini). Il rapporto Unama attribuisce le vittime dei raid aerei per l’83% alle forze aeree statunitensi e alleate, per il 9% ai velivoli afghani e per l’8% non ha potuto attribuirne con la causa.