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DOPO IL CASO CAGLIARI

Vescovi ed elezioni, proposte senza contenuti

L’iniziativa del vescovo di Cagliari è interessante: ha fatto entrare la politica in chiesa (con la c minuscola) per far uscire dalla politica la Chiesa (con la C maiuscola). Operazioni speculari ambedue sbagliate.

Editoriali 15_01_2019

“La politica è la forma più alta di esercizio della carità”, lo ha ribadito anche Mons. Arrigo Miglio, vescovo di Cagliari e presidente dei vescovi della Sardegna, nell’incontro con i candidati alle elezioni regionali tenutosi in una chiesa come riferito da noi ieri. La frase è sulla bocca di tutti e ci si pavoneggia nel pronunciarla, però da sola non basta, rimane un sacco vuoto. Infatti la politica è la forma più alta di carità sé è fatta in un certo modo e per certi contenuti, altrimenti è la più alta forma di ingiustizia e disumanità. Continuare a ripetere lo slogan della politica come forma più alta di esercizio della carità senza riempirlo di contenuti è fuorviante.

Eppure questa sembra essere la strada su cui si sono incamminati molti vescovi. Un esempio è dato dall’insistenza sulla importanza della “partecipazione” alle elezioni, con la condanna per infamia dell’astensionismo. Ma partecipare non è né un bene in sé né un male in sé: lo diventa in base ai contenuti della partecipazione. Se nell’urna elettorale si appoggiano partiti che vogliono distruggere la famiglia sarebbe meglio non partecipare alle elezioni e andare al mare. Se tutti i partiti presentassero programmi contrari alla famiglia, sarebbe doveroso non andare a votare e l’astensionismo diventerebbe un obbligo morale. Inneggiare alla partecipazione come un valore in sé significa appoggiare la democrazia procedurale, quella dello Stato neutro dai valori, contro la quale si sono pronunciati mille documenti della dottrina sociale della Chiesa: la democrazia sta o cade in relazioni ai valori che incarna.

Una democrazia procedurale che considera la partecipazione come un bene in sé può essere formalmente una democrazia ma sostanzialmente un totalitarismo. Ciò che importa non è la partecipazione ma i suoi fini, e sono questi che i vescovi dovrebbero insegnare. Non tanto a partecipare ma a partecipare per il bene, dove il fine buono diventa sostanza anche della partecipazione. Il bene è sempre stabilito dal fine: si tratta di un principio elementare della morale.

L’iniziativa del vescovo di Cagliari è interessante: ha fatto entrare la politica in chiesa (con la c minuscola) per far uscire dalla politica la Chiesa (con la C maiuscola). Operazioni speculari ambedue sbagliate. L’incontro doveva essere fatto non in chiesa ma in una sala e il vescovo non avrebbe dovuto chiedere più partecipazione ma indicare i principi e i contenuti per i quali la partecipazione è un bene, a cominciare dai principi non negoziabili e spingendosi anche a dire cosa ci stia a fare Dio con la politica. Perché quando si usa la parola “carità” applicata alla politica, come nella frase di Paolo VI ormai diventata vuoto slogan, la si intende in senso cristiano e non come solidarietà orizzontale. Paolo VI faceva riferimento alla “carità” come virtù teologale. La sua frase indicava quindi la presenza della Chiesa nella società e nella politica come Corpo di Cristo, altro che partecipazione.  

Questa attenzione a forme e procedure piuttosto che a contenuti si fa strada un po’ ovunque nella Chiesa, e non solo a Cagliari. Il bene comune, il principio di sussidiarietà, la libertà religiosa vengono solitamente impostati a prescindere dai contenuti. Il bene comune diventa accoglienza, solidarietà, integrazione …  sì ma con quali criteri e con quali fini? Il principio di sussidiarietà viene proposto solo come rivendicazione di spazi davanti allo Stato indipendentemente da cosa se ne faccia di quegli spazi di autonomia.  La libertà religiosa viene intesa come la libertà formale procedurale di dire la propria in fatto di religione, indipendentemente dalla verità delle religioni. Questo formalismo generalizzato però non appartiene alla Dottrina sociale della Chiesa.

Ci si può chiedere da dove nasca. Nasce dalla nuova teologia, secondo la quale il come precede il cosa e ne fa parte, l’esistenza precede la dottrina e ne fa parte, la prassi precede la teoria e contribuisce a riformularla continuamente. Si era cominciato a dire che il come è almeno importante quanto il cosa, e si è finiti col ritenere il come più importante e perfino sostitutivo del cosa.