Verdi di terrore per l'esplorazione spaziale
Impossibile rimanere insensibili di fronte al messaggio ecologista del (bellissimo) film Gravity: lo spazio è inesplorabile e pericoloso, l'uomo è destinato a rimanere incollato a Madre Terra. L'opposto dell'esaltazione dell'esplorazione spaziale di Giorgio La Pira, 52 anni fa.
È nelle sale un grande film americano, dal titolo Gravity. Per una volta, in testa al box office (sia in Usa che in Italia) c’è un film di assoluta qualità: va detto subito infatti che si tratta di una delle pellicole più emozionanti viste di recente. La storia narra delle gesta di due astronauti che, naufragati nello spazio orbitale, tentano in qualche modo di tornare sulla terra: altro non vogliamo dirvi, per non fare spoiling di una pellicola che merita davvero di essere vista. Per quanto si tratti di un film con un budget di 100 milioni di dollari, il film - come in una sorta di kammerspiel cosmico - ha due soli attori, George Clooney (che, nel ruolo dello yankee ottimista pronto al sacrificio è azzeccatissimo) e Sandra Bullock, un po’ segnata dalla chirurgia plastica e dalla troppa palestra ma comunque in grado di commuovere lo spettatore come solo le grandi attrici sanno fare. Il regista è il messicano Alfonso Cuarón, elemento di spicco della nuova corrente di cineasti connazionali che hanno invaso gli Usa e il mondo con i loro film di raffinata fattura.
Cuarón nella sua carriera ha diretto vari progetti di successo, tra cui una riduzione di Grandi speranze di Dickens, un cortometraggio animato con la no-global Naomi Klein che illustra il di lei libro The Shock Doctrine, un capitolo della fortunatissima saga cinematografica di Harry Potter, ma lo si ricorda volentieri per I figli degli uomini, un film che ha un qualche valore per il mondo pro-life: tratto da un romanzo distopico della aristocratica scrittrice membra della Camera dei Lord P.D. James, vi si narrano le gesta di un mondo futuro in cui le donne perdono totalmente la capacità di concepire, condannando l’umanità ad una sterile, tetra disperazione. Nonostante I figli degli uomini fosse un grandissimo pezzo di cinema che dimostrava le superbe capacità di Cuarón, Gravity è forse il suo film migliore. A contorno di un plot intimista e ritmatissimo, una gamma di effetti speciali che non hanno praticamente eguali fra le pellicole - anche i kolossal costati cifre superiori - sin qui realizzate: la resa della vita nello spazio tra satelliti, stazioni spaziali, shuttle e, soprattutto, lo spettacolo della terra visto sino nei suoi dettagli (l’Italia campeggia sotto ai protagonisti in un momento topico) è un miracolo visivo vero e proprio; la padronanza delle tecniche di computer grafica e di compositing (cioè, l’unione di filmati reali con ambienti ed oggetti digitali) consente al regista virtuosismi fuori scala, come inquadrature in infinito movimento che non staccano mai (i piani-sequenza) e visioni in soggettiva a dir poco impressionanti.
Insomma, chi parlasse di capolavoro per Gravity, non avrebbe poi tanto torto.
Non è possibile, però rimanere indifferenti al messaggio di fondo, un messaggio non privo di risvolti che interessano i cattolici e l’umanità tutta. È altamente improbabile, infatti, che si esca dal cinema con l’impressione che lo spazio possa rivestire un qualche ruolo per la vita umana: anzi, lo spazio è un luogo di orrore, distruzione è morte. Non si tratta solo di una inferenza emotiva: è, programmaticamente, l’esito intellettuale di un film la cui tagline è «la vita nello spazio è impossibile». Frase ripetuta, assieme ad altri dati che mostrano l’inabitabilità dello spazio, anche ad inizio del film. La protagonista, che ha problemi a «trattenere il pranzo a gravità zero», arrivata dolorosamente a metà film - effettivamente, se ci fosse un premio per la malasorte astronautica lo vincerebbe a man bassa - si lascia anche scappare anche un giudizio preciso: «io odio lo spazio». Detto da un’astronauta, è una condanna senza precedenti. E il film non può che seguire questa inclinazione.
Il problema è che da sempre, dietro la denigrazione dei programmi spaziali si nasconde qualcosa di più. Chi ha interesse a tenere l’umanità ancorata al pianeta - e sono tantissimi - lavora da sempre per lo smantellamento dell’era spaziale. Dagli entusiasmi per le imprese di Yuri Gagarin e delle missioni Apollo siamo passati, in neanche due decadi, ad una mentalità che vede la Terra come unico luogo di possibile proliferazione per l’uomo, e che percepisce il tentativo di andare oltre come una hybris degna di massima punizione divina - cosa che è, in nuce, la trama di Gravity.
Questa sensibilità è oramai diffusa assai, degenerando in una vera e propria pseudoreligone. Si tratta della Teoria di Gaia, l’entità olistica che corrisponde alla Terra secondo lo scienziato britannico James Lovelock, il cui culto che è etimologicamente sensato definire pagano. L’uomo è una bestia fra le altre, una parte - di fatto anche turbolenta e pericolosa, cancerogena per l’intero sistema - di Gaia, la Madre Terra, il cui fantasma pubblicitario a base di quadretti naturali alla National Geographic è ben visibile anche alla fine di Gravity. È quindi futile per l’uomo cercare un destino fuori dal globo materno, così bello e naturale. Capiamo bene che il culto di Gaia è l’armamentario ideologico che provvede alla blindatura ecofascista del pianeta: l’uomo deve restare in seno a sua Madre, per sempre (o, potenzialmente, venirvi abortito). Tale chiusura è rappresentata materialmente nel film dalla Sindrome di Kessler, vera ineluttabile deuteragonista della pellicola: una reazione a catena tra detriti cosmici che rendono l’orbita così “inquinata” da chiudere per generazioni ogni possibilità di esplorazione spaziale.
Come può capire il lettore, ogni teoria sui «limiti dello sviluppo» e la fine delle risorse - concetti tanto cari al Club di Roma come ai movimenti ecologisti, compreso il partito-monstre di Grillo - diviene lettera morta di fronte alle possibilità di colonizzazione dello spazio. I programmi antinatalisti, la menzogna della bomba demografica e le sue prospettive di apocalisse per sovrappopolazione divengono di colpo non-spendibili di fronte ad una umanità convinta di poter vivere un giorno anche fuori dalla terra: su Marte, sul satellite di Giove Europa, o su colonie spaziali disposte sull’orbita terrestre ipotizzate negli anni Settanta dal visionario scienziato Gerard K. O’Neill (rappresentate al cinema da 2001 Odissea nello spazio e dal recente Elysium, che è, anche questa, un’opera a suo modo antispazialista).
Diverso era l’entusiasmo per l’avventura spaziale - l’idea della nuova frontiera dell’umanità - che investiva il mondo negli anni Sessanta e pure molti grandi pensatori cattolici, come Giorgio La Pira. Con queste parole il sindaco santo accoglieva il 10 aprile 1961 i convenuti del Congresso Mondiale degli Scienziati Spaziali di Firenze: «Con questo messaggio voi annunziate la apertura, in certo modo, di tutte le porte e di tutte le vie del Cielo visibile e la misurabilità, in certo modo, di tutto lo spazio celeste. (...) Questo vostro messaggio scientifico è come un invito ai popoli - come l'invito biblico di Abramo! - a sollevare lo sguardo verso i cieli e ad intraprendere quella immensa avventura spaziale che ha già dato inizio ad una nuova epoca storica e dalla quale prenderanno sempre più definizione, struttura e volto la storia futura e la civiltà futura. Questo vostro messaggio scientifico cambia radicalmente -in certo senso- a tutti i livelli, la storia del mondo: dalla base elementare della tecnica e della economia sino ai più alti vertici della cultura, della spiritualità e della politica. Esso apre sul destino futuro della famiglia umana prospettive di tale ampiezza e di tale felice speranza da rendere imprevedutamente iscritte nella storia reale dei popoli le più celebri profezie di pace e di speranza che hanno lasciato in eredità al mondo i profeti di Israele, per un verso, e l'Apocalisse di San Giovanni - nella famosa visione dei mille anni - per l'altro verso. Ed esso svela ancora di più l'infinito valore della persona umana -il microcosmo!- fatto sempre più capace del dominio dell'universo. Ed esso, infine, definisce il peso storico dei popoli: i quali tanto peseranno storicamente quanto avranno capacità di misurare i cieli e ad avventurarsi negli oceani degli spazi celesti. (...) Questo vostro messaggio scientifico visto nel contesto storico di Firenze, assume un significato nuovo: si integra: diventa un messaggio di bellezza: introduce la persona umana - e perciò i popoli e la civiltà - nell' orbita dei due più alti valori della contemplazione artistica e religiosa. (...) L'età spaziale, cioè; con tutto ciò che essa importa di elevazione scientifica e di sviluppo tecnico per un verso e di elevazione spirituale per l'altro verso». Cinquantadue anni dopo, pare quasi impossibile che un sindaco abbia pronunziato un discorso di questa levatura.
Non tutto però è perduto. Gruppi di imprenditori miliardari - tra cui il duo di Google, e pure il regista James Cameron stanno migrando il loro business verso lo spazio. Il caso più concreto è quello del giovane geniale Elon Musk (già dietro a Paypal e alle auto Tesla) che ha creato SpaceX, società che effettua lanci nello spazio per l’esercito, la NASA e per i privati che sta incredibilmente generando ottimi profitti.
Checché la propaganda antispaziale ed ecofascista sia oramai da Oscar, la speranza della vita nel cosmo, insomma, non del tutto è morta. Come diceva quel tizio: «eppur si muove».