Venezuela, rivolta popolare contro il populismo
Da una settimana, nel relativo disinteresse dei media, studenti e oppositori venezuelani sono in piazza contro il malgoverno populista di Nicolas Maduro, il presidente erede di Hugo Chavez. L'economia è in rovina e la popolazione si spacca in due.
Caracas, Venezuela: dopo una settimana di scontri, quattro morti, una settantina di feriti e più di 100 arresti, il leader dell’opposizione di piazza che contesta il presidente Nicolas Maduro, Leopoldo Lopez, si è volontariamente consegnato alla polizia. “Consegnati fascista! Vigliacco!” aveva tuonato dalla televisione il presidente, erede di Hugo Chavez. E Lopez lo ha fatto, affermando di non aver nulla da nascondere, nessun reato da confessare. Il presidente lo accusa per “omicidio” e “cospirazione fascista” volta al rovesciamento del governo populista. Lui risponde consegnandosi, vedendo fino a che punto si spinge un governo che è ormai un regime, se ha il coraggio di arrestarlo e condannarlo senza prove e senza veri e propri capi d’accusa. Lopez cerca il martirio? Probabilmente sì. Ma lo fa perché sa di avere, alle sue spalle, la marea montante di una protesta.
Tutto era iniziato come una contestazione studentesca, in occasione dell’ufficiale Giornata della Gioventù (12 febbraio). I giovani contestavano l'insicurezza nelle strade e il crollo economico, che fa mancare anche i beni di prima necessità. Ma la ribellione si è allargata fino a comprendere centinaia di migliaia di venezuelani in piazza. Dall’altra parte i sostenitori del presidente bolivariano, dipendenti pubblici e lavoratori dell’industria petrolifera nazionalizzata da Chavez (l’unica vera fonte di ricchezza del Paese) sono a loro volta scesi in strada armati delle più aggressive intenzioni. Lo scontro fra le due piazze: colpi di pistola di incerta provenienza hanno provocato tre morti. Anche per oggi, a quattro giorni di distanza, dopo la “resa” di Leopoldo Lopez, si prevedono scontri fra i manifestanti dell’opposizione e le forze fedeli al regime bolivariano.
La protesta dilaga, perché gli ultimi mesi hanno ridotto il Paese al lumicino. Già a novembre, la crisi era tanto evidente che il presidente Maduro, alla maniera di Chavez, aveva occupato con l’esercito una catena di supermercati, per costringere i proprietari ad abbassare i prezzi. Erano seguiti orrendi saccheggi. Subito dopo, il successore di Hugo Chavez lanciava condanne staliniane contro quel poco che restava della classe imprenditoriale: “Questi capitalisti parassiti sono barbari! In questo momento abbiamo dietro le sbarre più di cento esponenti della borghesia!”. E ne arrestava più di cento in un solo giorno. Intanto l’economia andava a picco. L’inflazione è stimata attorno al 54%, mancano beni di prima necessità come la carta igienica, il livello di povertà è ancora fra i più alti del mondo, si moltiplicano i blackout in uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo. Maduro ha poi voluto imporre una serie di calmieri sui prezzi, fino al 50%. Col risultato prevedibile: fine dei beni di prima necessità, lunghe code di fronte ai negozi vuoti, sviluppo di un fiorente mercato nero.
È da queste premesse che nasce la ribellione venezuelana contro il presidente, a partire dagli studenti, che stanno perdendo il futuro, fino a quel che resta dei ceti produttivi venezuelani. Ovviamente, come da copione, Maduro accusa il “golpe” che secondo lui (e i quotidiani italiani che gli credono) è interamente opera degli Stati Uniti. Così, oltre a mandare la polizia a reprimere i moti di piazza, espelle anche tre diplomatici americani, liquidandoli con un ben poco diplomatico “andate a complottare a Washington!”.
Intanto anche la Chiesa inizia a prendere posizione. Per tutti e 14 anni di presidenza di Hugo Chavez il rapporto fra vescovi venezuelani e governo è stato a dir poco teso. E Maduro era in primissima fila a lanciare le sue accuse contro quella che lui definiva la “dittatura interna al Venezuela”, la Conferenza Episcopale accusata di essere “connivente con le oligarchie” ed essa stessa “chiesa oligarchica”. I vescovi chiedevano maggior rispetto per le opposizioni e il presidente Chavez rispondeva tacciandoli di cospirazione. Ma non si tratta solo di una lotta di potere: lo scontro ha anche una sua dimensione religiosa. Chavez e il suo discendente Maduro vogliono incarnare un “cattolicesimo di base” che riecheggia la Teologia della Liberazione, dunque la fusione fra Marx e il Vangelo. Maduro ha portato questa mistica pauperista alle sue estreme conseguenze, facendo di Chavez un santo, introducendo una gran dose di soprannaturalismo (ritiene di parlare tuttora col defunto presidente, tramite un uccellino) e fondando istituzioni utopistiche come il Ministero della Felicità Universale.
L’elezione di Maduro, dopo la morte di Chavez e l’elezione di Papa Francesco al soglio pontificio, sono quasi coincise, come tempistica, nei primi mesi del 2013. Vedendo l’ascesa di un pontefice sudamericano, con il nome di Francesco d’Assisi, Maduro aveva subito salutato il “Papa dei poveri e degli emarginati” e smorzato i toni della sua annosa polemica contro la Conferenza Episcopale. Considerando poi che l’ex nunzio apostolico in Venezuela, Pietro Parolin, è l’attuale Segretario di Stato in Vaticano, il presidente Maduro sperava di poter instaurare una sorta di relazione speciale con il nuovo papa. I vescovi venezuelani, finora, lo hanno seguito fino a un certo punto. L’arcivescovo Diego Padron ha sì condiviso la campagna contro la diffusione delle armi da fuoco (nel Paese con uno dei tassi di criminalità più alti del mondo) e condannato il sorgere di problemi economici quali “usura” e “mercato nero”. Ma nella crisi dello scorso novembre, quando i supermercati venivano occupati dall’esercito, i vescovi mettevano in guardia da una “eccessiva euforia che può sfociare in violenza”. A gennaio, quando erano già chiare le dimensioni della catastrofe economica e l’imminenza del sommovimento politico, l’arcivescovo Padron invitava Maduro a “dialogare con tutti” ed “evitare la discriminazione politica dell’opposizione”.
Scoppiata la bufera, il 12 febbraio scorso, la Chiesa si è trovata nell’occhio del ciclone. Opposizione e Conferenza Episcopale hanno chiesto coralmente di disarmare i gruppi di bolivariani (filo-Maduro) armati che terrorizzano i manifestanti. «I gruppi violenti devono essere disarmati dalle autorità - ha affermato Diego Padron, portavoce della Cev, in una dichiarazione in cui si respinge - ogni tipo di violenza, dentro e fuori le manifestazioni, così come la repressione di questa settimana». «È il momento opportuno per tutti i venezuelani di riflettere e mobilitarsi a favore della pace. Il dialogo è una chiave che apre le porte, che abbassa le tensioni e consente di trovare accordi e consensi tra tutti, che certamente ci sono», ha dichiarato Monsignor Padron all’Agenzia Fides. Non seguire questa strada, ha proseguito l'Arcivescovo, «significa approfondire la polarizzazione», perciò chiede al presidente di «dare ascolto al popolo che protesta».