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CONTRAPPASSI ECOLOGISTI

Vandana e la Coca Cola di traverso in Vaticano

L'ecologista indiana si è stupita nel vedere bere Coca Cola in Vaticano dato che è celebre la sua battaglia con la multinazionale. Tanto che ha persino istituito un processo morale per i cosiddetti ecocidi. E spera di portare la Monsanto davanti alla Corte Penale Internazionale. Che però è inutile e improduttiva.

Economia 15_11_2016

Secondo Vandana Shiva, l’ecologista indiana, non bisogna bere Coca Cola perché per ogni litro prodotto “viene distrutta una tonnellata d’acqua”. Si vanta di aver lottato nel 2002 con altre 500 donne per impedire la costruzione di uno stabilimento della Coca Cola in India. Trovandosi a Roma nei giorni scorsi per partecipare al III Incontro mondiale dei movimenti popolari, si è molto stupita di vedere i preti e i seminaristi del Pontificio Collegio Maria Mater Ecclesiae, sede dei lavori del summit, bere Coca Cola: “Dovrebbe essere messa al bando in Vaticano”, ha detto.

Vandana Shiva ha collaborato, insieme a 500 tra organizzazioni non governative e leader del movimento ambientalista mondiale, a istituire il Tribunale Monsanto, una sorta di tribunale morale, una “Norimberga”, che dal 14 al 16 ottobre all’Aia, Olanda, si è riunito per raccogliere testimonianze e dati da tutto il mondo a carico della nota multinazionale. In realtà, come hanno evidenziato i lavori dell’Assemblea popolare riunita negli stessi giorni all’Aia, il processo è contro l’intero modello di sviluppo occidentale, accusato di infliggere da cinque secoli danni sempre più gravi alla Terra, trattata come “mera materia prima”, con costi umani spaventosi: milioni di “profughi ambientali” – dicono – centinaia di milioni di poveri e di morti per fame e inoltre per malattie dovute al “cibo criminale” prodotto industrialmente.  

L’obiettivo di Vandana Shiva è portare in un vero tribunale la Monsanto per rispondere di ecocidio e altri crimini. In effetti potrebbe riuscirci adesso che la Corte penale internazionale ha deciso di estendere la propria competenza ai crimini ambientali. Come è noto, la Cpi è nata per giudicare reati di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità che altrimenti resterebbero impuniti perché gli stati in cui vengono commessi o quelli di cui i loro autori sono cittadini non sono in grado o non sono disposti a farlo. Ma il 15 settembre ha annunciato una ridefinizione dei reati sotto la propria giurisdizione per includere i crimini che derivano da o comportano “distruzione dell’ambiente”, “sfruttamento di risorse naturali” ed “espropriazione illegale” di terra, con un esplicito riferimento al land-grabbing, la cessione di vaste estensioni di terreno a privati e governi stranieri da parte di paesi a basso livello di sviluppo, per lo più africani.

Le associazioni ambientaliste esultano: gli amministratori delegati delle imprese che provocano danni ambientali possono essere denunciati alla Corte. Se ritenuti responsabili dell’abbattimento di foreste tropicali, ad esempio, o di avvelenamento di acque o di land-grabbing verranno incriminati: “la decisione della Corte può cambiare il modo in cui si svolgono le attività economiche nei paesi in via di sviluppo – è stato il commento di Gillian Caldwell, direttore di Global Witness, una delle Ong che hanno influenzato la svolta della Corte – il messaggio è forte: le terribili conseguenze del land-grabbing e della distruzione dell’ambiente sono all’attenzione del più alto livello della giustizia criminale”. “L’annuncio – ha osservato Alice Harrison, consulente di Global Witness – manda un segnale importante agli amministratori delegati e agli azionisti delle imprese, e cioè che l’ambiente non è più il loro parco giochi”. “Questo non rende il land-grabbing di per sé un crimine, ma il conseguente spostamento forzato di popolazioni potrà essere giudicato come un crimine contro l’umanità – precisa Richard Rogers del Global Diligence, uno studio legale specializzato in risoluzione di conflitti e difesa dei diritti umani – inoltre il nuovo orientamento della Cpi apre la porta a incriminazioni per cambiamento climatico dato che una elevata percentuale di emissioni di CO2 è stata provocata dalla deforestazione seguita a land-grabbing illegale”.

La fiducia degli ambientalisti nella Cpi è mal riposta. La corte, peraltro criticata per i suoi costi crescenti, dalla sua costituzione nel 2002 ha giudicato pochissimi casi anche perché per esercitare la giustizia ha bisogno – per eseguire gli arresti, ottenere documenti utili alle indagini, raccogliere prove, garantire protezione ai testimoni – della collaborazione degli stati membri che in gran parte gliela negano.

Per di più, abituati come sono a incriminare le multinazionali, gli ambientalisti trascurano il fatto che i responsabili di crimini ambientali, oltre e più ancora che le imprese e i loro amministratori delegati, sono i governi: nel caso del land-grabbing, ad esempio, quelli che cedono terre in affitto e le vendono senza preoccuparsi dell’uso che ne verrà fatto, quindi dell’impatto ambientale, e della sorte di chi eventualmente le abitava; e quelli che acquistano e affittano i terreni.

Oltre tutto la Corte ha giurisdizione solo sui 124 stati che l’hanno ratificata e sui loro cittadini. Tra i paesi che non vi hanno aderito ci sono Cina, India, Russia… Tre stati africani di recente hanno lasciato la Corte e altri stanno progettando di farlo: per evitare inchieste sull’operato dei loro governi, incriminazioni e l’arresto dei loro capi di stato. La decisione della Cpi aggiunge motivazioni a revocare l’adesione.