Vajont 1963 se a uccidere sono le rinnovabili
La tragedia del Vajont compie 50 anni. Ricordare quel disastro, oltre che un dovere morale, è una lezione vitale per sfatare le leggende sorte sulle "energie pulite" e soprattutto quella del cosiddetto "rischio zero".
Il 9 ottobre 1963, una frana sollevò un’onda nel lago artificiale della centrale idroelettrica del Vajont, in Friuli Venezia Giulia. L’ondata fu abbastanza potente da scavalcare la diga (che resse l’urto) e piombare sul fondovalle veneto. Lungo le sponde del lago del Vajont, vennero distrutti i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè e la parte bassa dell'abitato di Erto. Nella valle del Piave, vennero rasi al suolo i paesi di Longarone, Pirago, Maè, Villanova, Rivalta. Profondamente danneggiati gli abitati di Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna. Danni anche nei comuni di Soverzene, Ponte nelle Alpi e nella città di Belluno dove venne distrutta la borgata di Caorera, e allagata quella di Borgo Piave. Perirono 1918 persone, sia affogate che uccise dall’onda d’urto creata dalla bomba d’acqua.
A distanza di 50 anni dal disastro del Vajont, lascio ad altri il compito ingrato di commemorare la tragedia e mi faccio carico di un altro compito che va eseguito comunque e a mente fredda e lucida: valutare le scelte di politica energetica italiana e internazionale.
Parto da alcuni punti fermi. Primo: la disponibilità di energia abbondante e a buon mercato è condizione necessaria per il nostro benessere. Secondo: il rischio-zero non esiste.
I due assunti sopra enunciati appaiono pleonastici, se non fosse che, oggigiorno, hanno ampio credito sirene fraudolente che auspicano la decrescita felice e invocano il rischio-zero. È cruciale acquisire la consapevolezza della necessità di mettere all’angolo e isolare codeste sirene. Vendono illusioni, spesso per il proprio tornaconto – economico o politico che sia. Fanno appiglio alle speranze della gente, esattamente come quegli imbonitori che vendono amuleti e pozioni a chi non sa a cosa rivolgersi per lenire i propri mali e quietare le proprie paure.
Non v’è, né può esservi, nulla di felice nella decrescita, se per decrescita si intende, come intendono quelle sirene, la diminuzione individuale dell’uso delle disponibilità d’energia. Al tempo in cui quest’uso era ridotto al minimo, era al 100% energia dal sole e la popolazione del mondo era inferiore al mezzo miliardo d’anime, la sopravvivenza di tutti costoro era possibile grazie al fatto che il 90% di essi viveva in condizioni di schiavitù. Che è un tabù non da 1000 anni: il film Via col Vento! è ambientato non oltre 200 anni fa, in un’America di 30 milioni d’abitanti di cui 4 milioni schiavi. La schiavitù ha cessato di essere tabù grazie, non alle pseudo-lotte socialiste e comuniste (che semmai hanno avuto l’effetto di rendere schiavi uomini liberi), ma grazie alla disponibilità di energia diversa dall’energia dal sole e alla sua utilizzabilità tecnologica. Farsi illudere dalle sirene che cantano la decrescita, a dir loro felice, significa auspicare il ritorno della schiavitù. Oppure, se fa piacere, significa avere, quale modello di benessere, Burundi, Ruanda o Kenia, tanto per citare alcuni tra i Paesi con minore uso pro-capite d’energia.
Le stesse sirene della decrescita felice cantano il rischio-zero. Bisogna essere consapevoli che ogni attività umana ne corre, e il più probabile di tutti è quello dell’errore umano. Ma l’unico modo per eliminare l’errore umano è eliminare gli uomini, che probabilmente è l’auspicio delle suddette sirene. Nessuna delle quali, però, ci fa mai il piacere di cominciare a togliere il disturbo essa stessa. Per esempio, andando ad essere felice nei Paesi sunnominati, anziché occupare i programmi di Raitre, tipo quello di Fazio.
Con tutti i rischi che hanno corso, dobbiamo essere grati ai nostri nonni per aver costruito un sistema di bacini idroelettrici che contribuisce non poco al nostro fabbisogno di quel bene supremo che è l’energia elettrica. Come abbiamo potuto sperimentare, alcuni di questi rischi si sono tramutati in tragedia, ma una tragedia ancora più grande sarebbe stata la non disponibilità di elettricità.
Oggettivamente, i rischi dell’idroelettrico sono enormi. Nei 22 anni compresi fra il 1970 e il 1992 ha mietuto oltre 4000 vittime: 900 per tera-watt-anno elettrico prodotto. La cifra è ben superiore alle vittime dalle altre tecnologie di produzione elettrica che, per tera-watt-anno elettrico prodotto, sono state 350 dal carbone, 90 dal gas e meno di 15 dal nucleare. Grazie alla falsa musica delle sirene di cui sopra, il nucleare è percepito come la più pericolosa delle tecnologie di produzione elettrica, mentre invece è la più sicura in assoluto. Manco a farlo apposta, l’idroelettrico è la forma più in uso di energia solare: l’energia solare, allora, è la più potenzialmente pericolosa. Il terremoto in Giappone del 2011, con la distruzione di due dei 54 reattori nucleari giapponesi, ha causato, sì, molta paura, ma anche zero vittime. Lo stesso terremoto fece crollare una diga, le cui acque hanno sommerso due villaggi e causato centinaia di vittime: se in Giappone avessero avuto una diga di meno e un reattore nucleare in più quelle centinaia di persone sarebbero ancora vive.