Utero in affitto, lo stop della Cedu è solo a metà
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha rigettato il ricorso di un’ex coppia di lesbiche a cui le autorità islandesi avevano negato il riconoscimento come genitori di un bambino avuto negli Usa attraverso maternità surrogata.
Analizziamo il caso Ms Valdís Glódís Fjölnidóttir, Ms Eydís Rós Glódís Agnarsdóttir and Mr X v Iceland, sottoposto al giudizio della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu).
Partiamo dai fatti. Una coppia lesbica islandese - coppia «coniugata» - vola negli Stati Uniti e conclude un accordo di maternità surrogata con una donna sposata. Nasce un bambino nel febbraio del 2013 e il minore viene registrato come figlio di entrambe in California. Un nota bene: nessuna delle due donne ha fornito gli ovociti, quindi nessuna delle due è la madre biologica del bambino.
A questo punto, rientrate in Islanda, chiedono di venire riconosciute entrambe come madri del piccolo nei registri islandesi. Ma il pubblico ufficiale dell’anagrafe si rifiuta dato che per l’ordinamento giuridico islandese madre è solo colei che partorisce. La coppia non si arrende e fa ricorso al Ministero dell’Interno che nel 2014 conferma l’impossibilità di riconoscerle come genitori del minore. Nel frattempo il bambino viene considerato come cittadino straniero privo di genitori e quindi il Comitato di protezione dei minori lo prende in custodia. Successivamente la coppia fa richiesta di adozione e propone un altro ricorso, questa volta al tribunale di Reykjavik.
Intanto nel 2015 le due divorziano e la domanda di adozione decade. Accade poi che, applicando una legge speciale, al bambino viene riconosciuta la cittadinanza islandese. Sempre nel 2015 si stipula un accordo di affidamento: il bambino viene affidato ad una delle due donne e alla sua nuova «moglie» per un anno. Però l’ex «moglie» può comunque affiancare nell’affidamento la neo coppia sposata. Terminato l’anno di affido, il minore viene affidato sempre per un anno all’altra ex «moglie» e, dato che intanto si è «risposata» pure lei, alla nuova «moglie». Anche in questo caso l’altra ex può collaborare alla custodia del bambino. Infine nel 2017 la Corte suprema decide per l’affidamento perpetuo a favore della prima ricorrente, affidamento che ebbe inizio nel 2019. Inoltre, tanto per semplificare il quadro, la donna statunitense che aveva prestato l’utero, unica vera madre del bambino per il diritto islandese, ricopre il ruolo di tutore legale.
Torniamo al ricorso presso il tribunale di Reykjavik: questi respinge il ricorso affermando che il riconoscimento della genitorialità di queste due donne avrebbe comportato, come conseguenza inevitabile, anche il riconoscimento legale della maternità surrogata, pratica vietata in Islanda. Il giudice aggiunge che c’era stata sì intromissione nella vita privata del piccolo, ma necessaria per impedire la legittimazione dell’utero in affitto. Il passo successivo vede le due presso la Corte suprema islandese, la quale conferma il divieto di riconoscimento della genitorialità e afferma che non c’è stata nessuna violazione al diritto di privacy e alla vita familiare della coppia. Infatti i giudici affermano che non si può predicare l’esistenza di nessuna «vita familiare» tra i tre, perché il bimbo non è figlio delle due donne in alcun modo.
Infine la coppia fa ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), lamentando il fatto che la decisione dei giudici islandesi avrebbe comportato una violazione del loro diritto alla vita privata e familiare tutelato dall’art. 8 della Convezione europea dei diritti dell’uomo. Il loro intento ultimo, una volta vinto il ricorso presso la Cedu, sarebbe stato quello di essere riconosciute entrambe come genitori nonostante avessero divorziato e si fossero risposate. La Corte in prima battuta afferma che tra i tre si era instaurata una «vita familiare»: erano famiglia per il semplice fatto che avevano vissuto insieme per anni e che c’erano legami affettivi significativi. Il mancato riconoscimento da parte delle autorità islandesi delle due donne come genitori è sì, da una parte, una ingerenza nella loro vita familiare, ma legittima perché funzionale a far rispettare il divieto di maternità surrogata che a sua volta è stato voluto per tutelare i diritti delle donne che potrebbero essere sfruttate e i diritti dei bambini. Su altro fronte però questa ingerenza non ha interrotto il godimento di tale vita familiare, né ha intaccato la loro vita privata, perché le due donne possono attualmente prendersi cura del bambino. Inoltre, entrambe possono ancora chiedere di adottare il minore (ovviamente, in questo caso, solo una delle due potrà ottenere l’adozione dato che non sono più sposate tra loro). Dunque, la Cedu il 18 maggio scorso ha rigettato il ricorso perché non c’è stata violazione del diritto alla vita privata e familiare dell’ex coppia.
Tutto bene quello che finisce bene? No, perché in realtà questo ennesimo pasticcio omogenitoriale non finisce bene. Infatti il bambino crescerà in una coppia lesbica e un’altra coppia lesbica avrà comunque accesso all’educazione del minore. In sintesi: le due, secondo il diritto islandese, non potranno essere chiamate genitore de iure, ma de facto lo sono. I giudici islandesi non hanno voluto riconoscere la titolarità del rapporto genitoriale in capo alle due donne, altrimenti, così hanno dichiarato, sarebbe stata un’ottima sponda per legittimare la maternità surrogata. Ma anche il riconoscimento dell’affidamento e dell’adozione (pratica interrotta solo perché le due hanno divorziato) potrebbe portare comunque al medesimo risultato.
Seconda riflessione. La Cedu per l’ennesima volta ci dice che famiglia non è solo quella che nasce dal matrimonio, ma qualsiasi legame affettivo che è durato un po’ nel tempo, come quella che lega le due donne di cui sopra e il bambino oggetto di questa infinita vicenda giudiziaria. La storia delle due donne islandesi quindi ci porta a concludere che famiglia è anche quella omosessuale la cui prole proviene dalla maternità surrogata. Dunque, una famiglia può nascere anche da questa pratica. Ma allora come si potrebbe mai negare dignità giuridica all’utero in affitto? In altre parole: hai voglia a dire «No» all’utero in affitto se dici «Sì» alla «famiglia» nata da questa pratica.
Terza riflessione. Il bambino soggetto di questa storia viene continuamente riciclato in differenti ruoli giuridici: per diritto naturale lui è figlio della donna che lo ha partorito (posto che lei abbia fornito i gameti), poi diventa figlio di nessuno tanto che finisce in custodia presso un ente governativo, successivamente è minore in affido, prima di una coppia lesbica aiutata nel compito educativo dall’ex compagna omosessuale, poi di un’altra coppia lesbica sostenuta nella custodia dalla prima coppia lesbica e infine affidato nuovamente e definitivamente alla prima con supporto della seconda coppia lesbica. Quarto step: il minore per un certo periodo poteva anche essere adottato. Risultato: sembra di assistere al tracciamento di un pacco Amazon che, in lavorazione, passa da un centro di smistamento ad un altro. La morale è sempre la stessa: in queste vicende giudiziarie omogenitoriali gli unici interessi che vengono tutelati sono sempre quelli degli adulti omosessuali, non quelli dei bambini.