Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Cristo Re a cura di Ermes Dovico
TERRORISMO

Usa: tre attentati in un giorno. Se questo non è terrorismo...

Tre attentati in un solo giorno insanguinano l'America. Ventinove feriti a New York, otto nel Minnesota (e l'attentatore è ucciso), strage sfiorata nel New Jersey. Ma non è permesso parlare di "terrorismo", né tantomeno di offensiva terroristica. Non è solo (giusta) prudenza nel dare le informazioni, ma una scelta politica. Che parte dal presidente Obama.

Esteri 19_09_2016
St. Cloud, il centro commerciale attaccato

Un weekend di terrore in America, anche se non ci sono morti. Il bilancio è di 8 feriti e un morto (l’attentatore) in un centro commerciale del Minnesota, 29 feriti a New York. Questo bilancio che, per ora fortunatamente, non include anche vittime civili, non è stato causato da “attentati” o “terrorismo”, ma da un’aggressione su cui “non si può dire se sia di matrice terrorista” nel Minnesota e da una “esplosione intenzionale” a New York, sulla quale, afferma il sindaco De Blasio “non ci sono sospetti di legami con il terrorismo”. A far da mattatore, ancora una volta, è il linguaggio con cui le autorità e di conseguenza i media, descrivono gli eventi.

Partiamo dai fatti, prima di tutto. Sabato abbiamo assistito a tre atti di violenza avvenuti quasi in contemporanea in tre differenti stati americani. Prima di tutto nel New Jersey, nel Seaside Park (non lontano da New York) una bomba artigianale è esplosa prima del passaggio della Semper Five, la maratona di beneficienza del corpo dei Marine. L’evento, a cui partecipavano circa 5mila persone, era partito in ritardo. Solo per questo motivo non è avvenuta la strage. Tre bombe artigianali erano state piazzate lungo il percorso, di queste una sola è esplosa. Il tipo di ordigno, un tubo riempito di esplosivo, è lo stesso che gli attentatori della strage di San Bernardino (2 dicembre 2015), Rizwaan Farouk e Tashfeen Malik, avevano con sé al momento della loro ultima sparatoria. La connessione è subito saltata all’occhio della stampa americana, anche se le autorità non si sono sbilanciate. I provvedimenti di sicurezza sono stati drastici: almeno trenta case evacuate e, ovviamente, la maratona dei Marine annullata. Nel linguaggio ufficiale, però, non si parla di “terrorismo”, ma di un tentativo di compiere un “grave atto di violenza”.

La sera di sabato, alle 20,30 ora locale, nell’affollato quartiere di Chelsea, Manhattan meridionale, New York, esplode un’altra bomba artigianale. Anche qui non si capisce inizialmente se sia un’esplosione accidentale o dolosa. I feriti sono 29, di cui uno in gravi condizioni. La polizia si mette al lavoro e tre ore dopo trova un altro ordigno: una pentola a pressione piena di esplosivo con innesco a cellulare. La memoria torna anche qui a un attentato interno agli Stati Uniti: le bombe dei fratelli Tsarnaev contro la Maratona di Boston (15 aprile 2013) erano pressoché identiche. Una volta accertato che si trattava di bombe e non di una fuga di gas, il sindaco Bill De Blasio si è però limitato a parlare di “esplosione intenzionale”. Ieri sera ha specificato: “Sappiamo che sono scoppiate delle bombe. Sappiamo solo questo. Sappiamo che si tratta di un incidente molto grave. Ma abbiamo ancora molto lavoro da fare prima di dire quale sia la motivazione del tutto. Tutte le possibili ipotesi saranno verificate, ma al momento non abbiamo prove per parlare”. Molto più diretto il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo: “Una bomba che esplode a New York è chiaramente un atto di terrorismo”, quasi a rimproverare il sindaco della più grande città del suo stato.

Ma la giornata del terrore non era ancora finita: più tardi, nel corso della notte, un uomo con la divisa della security ha iniziato ad attaccare col coltello i clienti del centro commerciale di Saint Cloud, in Minnesota. L’uomo, stando alle testimonianze, ha chiesto alla prima vittima se fosse musulmano, alla risposta negativa ha iniziato a pugnalare. Fra un accoltellamento e l’altro, gridava Allah Akhbar, inconfondibile grido di battaglia dei jihadisti. Alla fine, è stato l’accoltellatore l’unico ucciso: individuato da un poliziotto fuori servizio (che era per caso nel centro commerciale), è stato abbattuto a colpi di pistola. Di questo attacco sappiamo con certezza la matrice. Dopo che per tutto il giorno le autorità avevano parlato di “possibile” atto di terrorismo, è stato l’Isis a rivendicare l’attentato, elogiando il suo “soldato”, un termine che il movimento terrorista usa per indicare i suoi uomini, quelli che hanno compiuto un percorso di radicalizzazione interno alla loro organizzazione. Non un lupo solitario che ha agito da solo, dunque, ma un uomo del Califfato.

Le bombe di New York attendono ancora una paternità, nessuno le ha rivendicate (al momento in cui questo articolo va online). Il sospetto che ci sia la mano dell’Isis è abbastanza forte, considerate le circostanze e le armi scelte sia nel New Jersey che a New York. Ma è giusta la prudenza di chi non dà per scontato ciò che non lo è. Anche a Madrid, il giorno stesso dell’attentato alla stazione di Atocha (11 marzo 2004) si diceva che fosse opera dell’Eta e invece era Al Qaeda. E per questo errore il governo Aznar perse le elezioni. Ma era almeno chiaro che si trattasse di terrorismo. Oggi, quel che accade nella comunicazione ufficiale delle autorità, e di conseguenza dei media, è la negazione stessa del fenomeno terrorista. Almeno da quando è presidente Obama, dal 2009, dai manuali di polizia è stato rimosso ogni riferimento all’islam, tanto che l’accostamento delle parole “terrorismo islamico” è ormai un tabù. Un terrorista non può essere islamico, ma un violento che agisce giustificandosi falsamente con motivi religiosi. Lo stesso motivo per cui il Califfato viene chiamato “Sedicente Stato Islamico”. Un po’ come quando la sinistra italiana parlava di “Sedicenti Brigate Rosse”.

Ora, tuttavia, si assiste a un passo ulteriore nella rimozione, dal linguaggio, del fenomeno terroristico. Non solo non si può parlare di “terrorismo islamico”, ma neppure di “terrorismo”. A meno che non si trovino tutti gli elementi necessari per dimostrare i legami fra chi ha materialmente condotto l’attacco e un’organizzazione terroristica internazionale. Il massacro di Fort Hood (5 novembre 2009) compiuto da Nidal Hasan, ufficiale medico che si è definito apertamente “soldato di Allah”, è tuttora riconosciuto ufficialmente come un “atto di violenza sul luogo di lavoro”. Non stupisce, dunque, che una bomba esplosa nel Seaside Park e una nel pieno centro di New York non possano essere definite come “terrorismo” a meno di non scatenare liti. Non è un caso che la definizione sia stata usata da Cuomo contro De Blasio, come atto politico e in modo polemico. Anche se si perde completamente di vista la realtà: come definire una bomba in una strada, se non terrorismo? Indipendentemente da chi possa averlo compiuto, sia esso un folle isolato, un gruppo di jihadisti, di suprematisti bianchi o di attivisti neri radicali, è comunque terrorismo. Certo è anche lecito pensare che ben tre atti di terrorismo in un solo giorno negli Usa possano anche non essere una mera coincidenza, ma far parte di un’offensiva. Magari è così. Ma non lo si dice.

Ci sono sicuramente tanti motivi per cui si è scelto di non parlare di terrorismo e di terrorismo islamico in particolar modo. Uno pratico è quello di evitare il panico agli americani e di non dare soddisfazione all’Isis, che potrebbe vantare troppi successi. Ma qui si va oltre. Negare o minimizzare l’esistenza stessa di un fenomeno terroristico, a prescindere dalla sua matrice, è un chiaro tentativo di accettarlo come una “nuova normalità”. E’ la sensazione che trasmette Barack Obama quando, alla rivista The Atlantic, dichiara apertamente che “L’Isis non è una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti. Il riscaldamento globale, semmai, è una minaccia esistenziale se non facciamo nulla per affrontarlo”. Nella stessa intervista ricorda che “muoiono più americani a causa delle pistole, degli incidenti d’auto o scivolando nei loro stessi bagni, che non per mano dei terroristi”. Un ragionamento che, a quanto pare, il presidente ripete spesso al suo staff. Non è solo voglia di farsi vedere sicuri di sé, di minimizzare l’impatto del terrorismo o di non suscitare panico. E’ qualcosa di peggio: è sufficienza. La sufficienza di chi ritiene il terrorismo jihadista un problema secondario. Per cui è più importante non drammatizzare e soprattutto non “esagerare” nella reazione: “Una retorica e soprattutto una visione del mondo alla Churchill – riferisce il The Atlantic sul pensiero del presidente - hanno spinto il suo predecessore George W. Bush alla catastrofica guerra in Iraq”. Quindi: per non avere altri Iraq, massima attenzione e cautela prima di parlare di terrorismo. Al massimo muore qualche americano, ma sempre meno di quelli che scivolano nella doccia.