Urosa: le omissioni dell'Instrumentum laboris
Intervista esclusiva all'arcivescovo emerito di Caracas, Jorge Urosa Savino. “Il problema non è il Sinodo”. Ma “il problema si trova nel documento di lavoro”. Tanta enfasi, quasi utopica, su natura e popoli indigeni, ma poca evangelizzazione. "Come se Cristo non fosse necessario e fosse sufficiente l'utopia dell’armonia naturale."
Ottobre si avvicina. Di conseguenza, si avvicina il Sinodo sull’Amazzonia voluto da Papa Francesco, che ha suscitato dure accuse e polemiche. Il Venezuela è uno dei nove Paesi sudamericani che accolgono questo vasto territorio che, oggi più che mai, si trova al centro del dibattito mondiale. Risulta quindi doveroso ascoltare una voce rispettata dell’episcopato venezuelano: quella del cardinale e arcivescovo emerito di Caracas, Jorge Urosa Savino. È il cardinale più anziano del Venezuela, una delle voci più autorevoli della regione.
La Nuova BQ ha incontrato in esclusiva il cardinale Urosa Savino, durante la sua recente visita a Roma. Nonostante non sia annoverato tra i padri sinodali, il porporato venezuelano ha confessato il suo particolare interesse per quest’evento: “Il problema non è il Sinodo, anzi vorrei dare il mio contributo perché sia un successo per l'evangelizzazione e la rivitalizzazione della Chiesa latino-americana”, ha dichiarato il cardinale, sottolineando che “il problema si trova nel documento di lavoro”.
Infatti, l’Instrumentum Laboris ha ricevuto numerose critiche, lei cosa ne pensa?
Il documento di lavoro non è di buona qualità, perché ha debolezze e omissioni che si possono correggere, che si devono correggere. È molto complesso, anche nella sua strutturazione, e persino scomodo, per quello è stato molto criticato. Di conseguenza, mi sono dato il compito di studiarlo per aiutare i Padri sinodali a superare i difetti e le debolezze del testo, partendo dai suoi punti di forza.
Allora, partiamo dai punti di forza…
Come vescovo venezuelano, sono pienamente d’accordo nel denunciare tutte le violenze contro i popoli e il territorio amazzonico. Il grave sfruttamento che viene denunciato nell’Instrumentum Laboris si verifica anche in Venezuela. Nello specifico, nella nostra regione amazzonica, l'attuale governo ha promosso la distruzione dell’“Arco Minero del Orinoco”, attraverso un'operazione mineraria aggressiva e disordinata, che viola i diritti delle popolazioni indigene. Questo documento evidenzia la gravità degli abusi commessi contro i popoli amazzonici, in particolare contro gli indigeni.
E le sue preoccupazioni?
Questo Sinodo è dedicato allo studio dei problemi della Chiesa nell’Amazzonia, che comprende buona parte del Sud America. Tuttavia, è particolarmente importante per l'intera Chiesa, poiché sia il Papa sia coloro che hanno lavorato alla sua preparazione danno a questo Sinodo una proiezione universale. Quindi questa assemblea sinodale influenzerà l'intera Chiesa e non solo i Paesi amazzonici. Per cui il contenuto dell’Instrumentum Laboris è di grande importanza, ma i vari temi presenti si mescolano, ci sono ripetizioni che allungano inutilmente il testo e che riducono la chiarezza dei contenuti. Nel testo sono numerose le questioni culturali, ecologiche e socioeconomiche, mentre sono meno presenti gli aspetti dell’evangelizzazione e le proposte di azione pastorale, nonostante siano più importanti per noi pastori della Chiesa.
Lei abita in un Paese che fa parte del territorio amazzonico, come vede l’approccio sull’Amazzonia?
Mi stupisce la visione ottimista ed elogiativa, quasi utopica, con cui la popolazione indigena dell'Amazzonia è presentata nella prima parte del testo. L’Amazzonia è presentata quasi come una sorta di paradiso terrestre, di bellezza senza limiti (IL 22) “piena di vita e saggezza” (IL5). Si parla anche della natura in un modo estraneo alla visione cristiana e si parla della “Madre Terra” come se fosse una persona (Cfr IL 44). Dall'altra parte, il testo elogia la saggezza ancestrale dei popoli e propone che i nuovi percorsi di evangelizzazione siano costruiti in dialogo con questa saggezza, perché presuppone che “la diversità originale che offre la regione amazzonica evoca una nuova Pentecoste” (IL 30). Mi chiedo, perché quella diversità originale dovrebbe evocare una nuova Pentecoste? Sarebbe necessario approfondire il significato di quella frase, a prima vista confusa ed esagerata.
Invece, questa bellezza amazzonica non è tale?
È molto romantica la descrizione del popolo amazzonico. Gli indigeni sono presentati come esseri eccezionali, che vivono in armonia con la natura e l'essere supremo, che personificherebbero un “buon selvaggio” utopico, virtuoso, gentile, ingenuo e fiducioso. Cioè come un popolo saggio in cui si sarebbero trovati i semi della Parola. Però a mio avviso è una visione antropologica molto ottimista. Si ignorano le carenze delle culture indigene, si omettono i loro limiti e i loro fallimenti. Si presenta un’antropologia idealista dei “popoli nativi” molto lontana dall’antropologia cattolica, quindi lontana dalla visione biblica e cristiana dell'uomo, senza dubbio immagine di Dio, ma battuto dal peccato e bisognoso di redenzione. Ecco qui che sorgono diverse domande: perché si parla poco del bisogno di salvezza e di redenzione? Perché si dice poco sul rafforzamento intensivo dell'azione pastorale e apertamente evangelizzatrice della Chiesa sull’Amazzonia? Come se Cristo non fosse necessario e fosse sufficiente l'utopia dell’armonia naturale.
Aveva segnalato problemi di chiarezza nel testo. Quale sarebbero quelli più preoccupanti?
La presenza di un linguaggio inappropriato e impreciso, nonostante sia un testo ufficiale. Si parla del clamore di giustizia del territorio dell’Amazzonia e questa regione viene presentata quasi personalizzata, come un locus theologicus, che sarebbe una nuova fonte della rivelazione di Dio (Cfr IL 18 e 19). Qui troviamo un punto problematico, di discussione seria, perché la categoria di nuova fonte di rivelazione è attribuita a un particolare territorio e alla lotta per la giustizia. Si può parlare dell’Amazzonia come di una fonte di una nuova rivelazione? Ricordiamo che la parola rivelazione, nel magistero ecclesiastico e nella teologia, in generale, è molto concreta: significa la manifestazione che Dio ha fatto di se stesso all'umanità attraverso Gesù Cristo. Lo vediamo chiaramente nel documento Dei Verbum, sulla rivelazione divina, del Concilio Vaticano II (DV. 2). Quindi, la piena rivelazione è stata già presente in Gesù Cristo e non si può utilizzare un linguaggio ambiguo, che oscura la realtà teologica e dottrinale in un documento ufficiale. Sarà necessario usare un maggiore rigore concettuale, teologico e dottrinale nel Sinodo.
In mezzo a questa confusione concettuale che lei ha rilevato e nella mancanza di proposte pastorali, è possibile parlare di una vera evangelizzazione?
L'urgenza di compiere la missione evangelizzatrice della Chiesa sembra essere assente o viene espressa in modo molto debole. Nel testo è assente la proposta di conversione, non è evidente l’invito ad accogliere Gesù come unico salvatore, come redentore dell'essere umano ferito dal peccato. Perché non viene detto espressamente? Invece dovrebbe essere al centro del testo e quindi del Sinodo: la rivitalizzazione della Chiesa in Amazzonia. Così come lo stesso Papa Francesco ha evidenziato nell'Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, 14. Invece c’è una ferma difesa dell'ecologia e delle popolazioni autoctone, lasciando da parte l'annuncio più esplicito del kerigma e un'azione più apertamente evangelizzatrice di crescita della Chiesa in tutta l'Amazzonia. Questo squilibrio è una grande debolezza del testo. Mi auguro che i Padri sinodali ascoltino e possano superare questi problemi nelle loro deliberazioni.